VILLA DEI VESCOVI
|
|
Stampa
delle mie brame chi è la più bugiarda del Reame? "Il
dubbio"? Particelle elementari
|
di Piero Ostellino / \ Gianluigi Battista
|
|
Il crollo di Pompei? Una bufala per Carandini
|
di Pierre de Nolac Italia
Oggi Numero 268 pag.7, 11/11/2010
|
|
«Il dolore monumentale va circoscritto: quello che è
crollato è il restauro di Maiuri degli anni quaranta del secolo
scorso». Andrea Carandini, presidente del consiglio superiore
dei beni culturali, archeologo di chiara fama, non ha dubbi: a Pompei
nella domus dei Gladiatori non è successo nulla di grave, quella
che è crollata è una struttura di cemento costruita nel
secolo scorso, una superfetazione, quando invece oggi si usa il legno
lamellare. Ovvero, tanto rumore per nulla: le uniche opere autentiche
sono le pitture della parte inferiore della domus, il resto è
un falso. Lo ha detto nella trasmissione radiofonica di Raiuno, Baobab,
ma nessuno sembra essersene accorto. Tutti erano impegnati a dare risalto
alle macerie, ma senza guardare a cosa è caduto a terra: intanto,
i giornali di tutto il mondo erano attirati dalla voglia di offrire
la visione dell'Italia ridotta a un cumulo di calcinacci. Quel crollo
è tutt'altro che drammatico, è una benedizione artistica,
perchè quel che è venuto giù è una sorta
di mostro architettonico. E per Carandini il cemento che è stato
aggiunto andrebbe tolto, senza alcun rimpianto. Amedeo Maiuri (1886-1963),
lo studioso citato da Carandini, assunse la carica di direttore degli
scavi di Ercolano e Pompei, portando alla luce una buona parte delle
città. E introducendo il cemento. Le polemiche, però,
hanno raggiunto vette incredibili, pure all'interno del centrodestra:
anche l'europarlamentare Erminia Mazzoni (Ppe-Pdl) da Bruxelles ha parlato
di Pompei, accusando il governatore veneto Luca Zaia di essere un incolto,
solo perché ha parlato dei «quattro sassi» caduti
nella città distrutta dall'eruzione del Vesuvio nel 79 d.C. Ma
a sentire l'archeologo Carandini, Zaia in fondo non ha tutti i torti. http://www.italiaoggi.it/giornali/dettaglio_giornali.asp?
|
|
Pompei, la verità taciuta. E' crollata solo una patacca
|
Il Giornale - venerdì 12 Novembre 2010, 08:15 <il Giornale.it>
|
|
Prima da Augias e poi dalla Dandini per spiegare e scagionare l’amico-collega
Sandro Bondi che però vorrebbe «vedere più spesso».
Ha spiegato ai poco concilianti spettatori di Raitre che a Pompei
il crollo è stato sì inevitabile ma, tutto sommato, provvidenziale.
Quasi una benedizione. E ha messo in guardia per il futuro: Villa
Adriana a Roma, tanto per dirne una. E se lo dice il più grosso
esperto del settore, l’archeologo Andrea Carandini, presidente del Consiglio
superiore per i Beni Culturali c’è da temere il peggio. L’avviso
ai turisti per caso è chiaro: il dolore monumentale va circoscritto
perché quello venuto giù a Pompei era solo un mostro architettonico.
«Piuttosto - avverte il professore dal passato non propriamente
di destra - non solo il ministro Bondi c’entra nulla, ma in mancanza
di controlli sistematici preparatevi ad altri crolli». Sembra
una provocazione, ma è solo l’analisi di un esperto che da 15
anni lancia allarmi invano.
Professore ci spieghi. «Possibile che nessuno se
ne sia accorto? Quello crollato è solo il restauro di Maiuri
risalente agli anni Quaranta. A Pompei nella Domus dei Gladiatori non
è successo nulla di grave, quella caduta giù è
una struttura di cemento costruita nel secolo scorso, una superfetazione,
quando invece oggi si usa il legno lamellare...».
Dunque, tanto rumore per nulla. «Le uniche opere
autentiche sono le pitture della parte inferiore della domus, il resto
è un falso. Tutti erano impegnati a dare risalto alle macerie,
ma senza guardare a cosa è caduto a terra. Quel crollo è
tutt’altro che drammatico, è una benedizione artistica, il cemento
che è stato aggiunto andrebbe tolto e senza troppi rimpianti».
In fondo, però, si sta parlando di Pompei. «Si
figuri, questo sito archeologico è invaso da turisti asiatici,
è sotto osservazione, fa tendenza. Pompei ha subìto di
tutto, pure un bombardamento nel ’43. E poi il valore simbolico della
Domus dei gladiatori equivale alla via sacra a Roma. Lo dico perché
bisogna lasciar perdere i piagnistei e rimboccarci le maniche. Speriamo
solo che gli affreschi non siano stati troppo danneggiati».
Lei ha detto più volte che la situazione è drammatica
perché manca una manutenzione sistematica. Poi c’è
la questione economica, i soldi scarseggiano... «La situazione
è questa: l’anno prossimo avremo da Tremonti 53 milioni di euro
per tutti i siti italiani, più o meno come la liquidazione di
un top manager. Lui dice che con la cultura non si mangia, ma mantenere
in salute un bene architettonico costa tanto e noi in un certo senso
dobbiamo riempirci la pancia. Che deve fare il ministro Bondi se chiede
soldi e gli rispondono picche?».
Già, intanto però cosa occorre fare in pratica? «Contrariamente
alle chiese i ruderi archeologici sono logorati da secoli dalle piogge
e dal sole. Si sfarinano. Per questo vanno trattati come le nostre case.
Servono le stesse cure quotidiane. Se si rompe la persiana di una finestra
si ripara. Il patrimonio artistico ha bisogno di queste attenzioni.
Senza manutenzione ordinaria, i siti archeologici finiscono sotto un
campo di grano. Come è accaduto a Veio».
Però ha tutta l’aria di essere anche un problema culturale? «Le
cure continue, la prevenzione non sono attitudini tipicamente italiane.
A noi manca una mente sistematica. Però ricordate bene, tutto
ciò che non è sorvegliato sistematicamente prima o poi
crolla». http://www.ilgiornale.it/interni/pompei_verita_taciuta_e_crollata_solo_patacca/12-11-2010
|
|
LA DOPPIA MISURA DELLA LIBERTA' DI STAMPA Particelle elementari
|
di Pierluigi Battista Il
Corriere della Sera - lunedì 15 Novembre 2010
|
|
Bisognerebbe avere un metro in comune, per scambiarsi i giudizi sulle
cose. Un criterio elementare che magari non riesce a trovare la strada
giusta per un'irraggiungibile Verità, ma che per lo meno non
sia apologia dell'opposto della verità: la malafede o l'ipocrisia. E
dunque, se su Repubblica Giuseppe D'Avanzo i giorni dispari tuona per
la difesa della (sua) libertà di stampa e i giorni pari gioisce
senza ritegno perché hanno messo il bavaglio al nemico Vittorio
Feltri, come si fa a trovare un terreno di ragionevole comunicazione
tra persone che, pur in dissenso tra di loro, dovrebbero godere del
beneficio della buona fede? Che idea bislacca della libertà di
stampa può mai avere chi la rivendica solo per sé, per
poi negarla, con la stessa arrogante perentorietà, a chi non
gli aggrada? Che la cultura liberale non abbia mai goduto in Italia
di ottima salute è del resto cosa stranota. L'idea che le
libertà debbano valere per tutti è, ovunque, acquisizione
così ovvia da non richiedere ulteriori chiarimenti. Da noi, intrisi
come siamo di mentalità fascista, invece bisogna ricapitolare
ogni volta daccapo, pazientemente, l'abc del liberalismo. E l'abc del
liberalismo sostiene che un giornalista costretto a non scrivere è
uno spettacolo avvilente. Sempre, a prescindere dalla collocazione politica
di chi viene imbavagliato. Non si sa invece da quale altro catechismo
ideologico D'Avanzo abbia ricavato la lezione opposta: le garanzie valgono
solo per gli amici e non per i nemici; i grandi principi sono intoccabili
per il mio clan, ma possono essere manipolati a piacimento quando a
essere colpito è il clan rivale. Qui al Corriere si detesta
il «metodo Boffo». E infatti non lo si pratica. Mai: non
come nei giornali di destra che sbandierano la tutela della privacy
e poi si scatenano nella demolizione di quella dell'avversario politico.
E non piace il bavaglio. E infatti non lo si invoca. Anche in questo
caso: mai. Non è «terzismo»: è cultura
liberale, sconosciuta a chi, giustamente, protesta per il proprio bavaglio
e invoca, spudoratamente, quelli destinati a soffocare la voce del nemico.
Se Feltri ha violato la legge, che paghi, come tutti i cittadini. Ma
se al posto di un tribunale della Repubblica, un'inquisizione corporativa
stabilisce che un giornalista non possa scrivere per tre mesi, allora
è censura. L'altra sera, intervistato da Daria Bignardi, Eugenio
Scalfari ha sostenuto che Feltri meriterebbe la radiazione a vita dall'Albo
dei giornalisti. Chissà quale apocalittica punizione dovrebbe
invocare, allora, per chi, nel suo gruppo editoriale, pubblicò
negli anni Settanta colossali patacche sul conto dell'allora presidente
della Repubblica Giovanni Leone, costringendolo a ingiuste dimissioni. Ma,
l'abbiamo capito, la libertà di stampa è buona solo per
se stessi. Vale solo se conviene. Se non conviene, viva il bavaglio:
da mettere sulla bocca degli altri.
|
|
II dubbio di Piero Ostellino - Se il giornalista vuol essere tribuno
|
Corriere della Sera - sabato 13 Novembre 2010, pagina 57
|
Nel clima di degenerazione civile del Paese, certi articoli di giornale
e certe trasmissioni Tv sopravanzano, per volgarità, lo squadrismo
storico. Dire che sono diffamatorie sarebbe attribuire loro la dignità
di una invettiva intellettuale - il «diffamate, diffamate, qualcosa
resterà» di volterriana memoria - che non hanno. Definirne
giustizialisti gli artefici equivarrebbe a paragonarli a una folla che
assimila la giustizia al linciaggio, ma è almeno mossa da un
moto dell'animo. Sono manganellatori per istinto paranoide al riparo
di una inaccettabile idea di legalità; più un «caso
clinico», da psicanalisi, che politico. Esprimono un infantile
desiderio di essere riconosciuti come «tribuni del popolo»
più che come giornalisti; spacciano per etica pubblica l'estatica
contemplazione di se stessi. Non sono cittadini indignati; sono attori
di una commedia. Depongono sui giornali, e sul video, le parvenze di
un pensiero come i cani le loro tracce sui marciapiedi. Ma i proprietari
dei cani le raccolgono e le gettano in un cestino dei rifiuti; certi
editori le stampano e certe trasmissioni Tv le spalmano sul video, compiaciuti
del fetore. Fanno audience. I nostalgici della forca le ripetono come
un disco rotto. E' gente, non di rado, animata da sentimenti sinceri,
ancorché rozzi, di giustizia dei quali si approfitta. È
la libertà di informazione. Resta patrimonio di ogni Paese civile,
anche se non c'è alcun altro Paese al mondo dove si pratichi
un giornalismo tanto incivile. Sbaglia, dunque, chi
vorrebbe limitare la libertà di espressione di costoro cui finisce
con offrire l'opportunità di recitare la parte delle (ben
pagate) vittime di un'oppressione che non è, palesemente,
neppure in grado di esercitare. In primo luogo, e soprattutto,
perché tale libertà è uno dei principi fondanti,
e irrinunciabili, della democrazia. In secondo luogo, perché
a uscirne sporcati, agli occhi di chi abbia cervello, non sono le vittime
delle aggressioni, ma quelli che le praticano, rotolandosi nelle lordure
che essi stessi spargono a piene mani. Perché lo fanno, allora? Temo
perché lo squadrismo è il loro mestiere; perché
quello è il livello, politico e culturale, cui sanno esercitarlo.
Mi rendo conto, a questo punto, che i miei lettori si chiederanno anche
perché io abbia dedicato spazio a un fenomeno tutto sommato minore.
La ragione è che esso non è la nuova manifestazione di
quell'estremismo, degenerativo in terrorismo, che Lenin definiva «malattia
infantile del comunismo», e che il centrodestra, sbagliando, tende
ad accreditare come comunista tout court, legittimandolo. Il comunismo
era, ancorché tragicamente, una cosa seria. E', piuttosto,
la ridicola sindrome della «carenza civile» di un'Italia,
democraticamente immatura, e di un giornalismo che, come un interessato
untore manzoniano, cerca di diffonderla, spacciandola come resistenza
a un regime illiberale. Entrambi con la «r» minuscola, mi
raccomando; non facciamo confusioni. postellino(et)corriere.it ***
Pagina 57 (13 novembre 2010) - Corriere della Sera http://archiviostorico.corriere.it/2010/novembre/13/giornalista_vuol_essere
|
|
|
|
Indietro
|| Home
|
|