VILLA
DEI VESCOVI
Ed è proprio
in quelle scuderie della Barchessa che con l'allora Presidente
dell'Ente Ville Venete, Boso Roi, e con l'architetto Marcello Checchi, Vittorio
ed io scoprimmo per caso sotto montagne di fieno gli splendidi abbeveratoi in
marmo giallo di Vicenza che feci sistemare come lavabi nelle
sale da bagno della Villa dotandoli di antiche rubinetterie in bronzo
e ferro e mascheroni rinascimentali in terracotta che trovammo dagli
antiquari del Viterbese che gravitavano attorno al Giardino dei Mostri
di Bomarzo ed al Palazzo di Caprarola. Mascheroni da cui sgorga l'acqua
riversandosi nelle splendide vasche da bagno in marmo giallo di Verona
e rosa di Verona, le antiche vasche delle Terme di
Abano, terme rinomatissime sin dall'antichità.
Il riconoscimento ed il puntuale riscontro che il FAI riserva a coloro che anche con un piccolo contributo sostengono la sua instancabile opera di salvataggio dei beni culturali nazionali in degrado, ne fa una Fondazione privata accessibile e molto godibile da tutti. Anche di di modeste condizioni economiche ma consci dell'immenso valore del patrimonio artistico culturale italiano desiderosi collaborare alla conservazione e salvaguardia. La cartolina del FAI è talmente bella che vale la pena spendere un po' del proprio tempo recandosi in un ufficio postale ad inviare il proprio contributo al FAI così da essere anche tu «FAI *il Mecenate nell'Uovo*» con un euro devoluto per i restauri di Villa dei Vescovi. E il FAI invierà xTe una cartolina ovunque tu sia. Hai già fatto il Mecenate nell'Uovo con un euro? Allora Grazie! Se non l'hai ancora fatto sei sempre in tempo, l'invito continua, perciò FAI *il Mecenate nell'Uovo* con il Conto corrente postale del FAI n° 11711207 inviando il tuo contributo al FAI Viale Coni Zugna, 5 - 20144 Milano. Causale: Mecenate nell'Uovo D'Olcese Restauro Vescovi. Giuliana D'Olcese www.virusilgiornaleonline.com/rubricadol.htm
***
Donazione
Vittorio Olcese,...
Villa
dei Vescovi, Luvigliano Padova Gianluca
Balzarini
FAI -
Ville
- Descrizione. Donazione
Vittorio Olcese, 2005. Edificata tra il
1529 e il 1538 su un terrapieno dei Colli Euganei, l’imponente struttura
della villa spicca sul paesaggio rurale circostante. Più che
una villa con concrete funzioni agricole, si distingue per l’impianto
architettonico che riprende i modelli della romanità e che
testimonia una perfetta armonia tra arte e natura, ribadita all’interno
dall’ampio ciclo di affreschi, di matrice raffaellesca, eseguiti
tra il 1542 e il 1543 da Lamberto Sustris. http://www.fondoambiente.it/luoghi/Villa/index.htm
Newsletter
del FAI 20 aprile 2007
(...). La donazione di Villa dei Vescovi rappresenta un evento particolarmente significativo per il FAI, soprattutto perché si tratta del primo Bene nel Nord Est Italia, nonché una delle più importanti ville venete che da 500 anni si affaccia sul panorama dei Colli Euganei attorno a Padova. Obiettivo della Fondazione, in linea con la sua mission, è di preservarne l'integrità architettonica e del contesto in cui è inserito, per consentire al pubblico di “vivere” un luogo pensato espressamente per godere delle delizie e dei piaceri della mente e dello spirito. (...). ***
Nota
bibliografica del FAI
Ne «Il Mondo del FAI», edizione 2005-2006, alle voci «Come aiutare il FAI» e «Sostenete gli appelli», scrive il FAI «Durante l'anno il FAI chiede ai suoi Aderenti di sostenere speciali appelli in favore di opere di restauro, salvaguardia e conservazione. Quello che vi chiediamo è un aiuto importante e spesso urgente dei cui risultati sarete sempre informati». E nel rapporto annuale 2005-2006 scrive l'Amministratore culturale del Fai «Mecenate con 1 euro. Aiutateci a restaurare e aprire al pubblico Villa dei Vescovi a Luvigliano (PD). Tutti possiamo essere Mecenati. Tutti coloro che, in qualità di promotori di attività culturali e artistiche di interesse sociale, tendono a far sì che esse siano perseguite grazie a un loro gesto o a un loro comportamento sono mecenati». «(...) Mecenate è anche chi propone o tende a portare a compimento un'iniziativa di interesse sociale». «(...) il significato di promotore: "chi propone o tende a portare a compimento un'iniziativa di interesse sociale". Allora "mecenate" è colui che, riconoscendo all'attività culturale un interesse sociale, tende a portarla a compimento. E' appunto quanto andiamo ripetendo al FAI da anni. I nostri aderenti, dunque, sono tutti mecenati. E' mecenate chi offre il proprio tempo, è mecenate chi dà 1 euro, è mecenate chi ne dà 39 per iscriversi, chi 1 milione, chi regala un castello, chi lascia qualcosa in eredità: quello che conta, primariamente, è la condivisione di un atteggiamento, è, sopratutto, la personale partecipazione alla concreta realizzazione di uno scopo». Cari lettori, viene spontanea una domanda, anche nell'arte c'è democrazia? Direi proprio di si. Anche la democrazia è un'arte, che va praticata, però, con grande arte...
Donazioni
Olcese, FAI & Magnifici Misteri...
Scrivono lettori di quotidiani, settimanali, siti internet, motori di ricerca «Sulla donazione Olcese al FAI di Villa dei Vescovi circolano notizie contrastanti, notizie che si rincorrono e si smentiscono l'un l'altra... Ma allora, chi l'ha donata davvero al FAI la Villa dei Vescovi? Vittorio Olcese o la vedova ed il figlio Pier Paolo? Perchè è scritto ovunque «Donazione Vittorio Olcese» e per quale motivo il FAI, soltanto dopo due anni che la notizia l'ha pubblicata e diramata come «Donazione Vittorio Olcese» scriveo che la Villa l'hanno donata la vedova e il figlio Pierpaolo?». «La donazione Villa dei Vescovi è pubblicata come «Donazione Vittorio Olcese» anche ne «Il libro del FAI» edito dal FAI in occasione del trentennale della sua fondazione avvenuta nel 1975. Inoltre nelle note di Giuliana D'Olcese si legge da sempre che la donazione a un bene pubblico l'avevano già concordata e decisa lei e l'ex marito Vittorio Olcese. Nelle reciproche volontà testamentarie, infatti, vi sarebbe stata quella di destinare Villa dei Vescovi allo Stato o ad una Fondazione in modo che la proprietà comune non rischiasse un nuovo degrado dal quale nel 1962 la avevano salvata entrambi. Quindi è o non è l'Olcese che, fedele all'impegno preso con la prima moglie, l'avrebbe destinata al FAI? «Così che secondo il desiderio di papà la villa possa essere aperta al pubblico» ha infatti dichiarato Pierpaolo Olcese figlio del secondo matrimonio di Vittorio Olcese. Sulla eredità della Villa e dei beni che arredavano la villa al tempo in cui Vittorio e Giuliana l'avevano acquistata, restaurata, arredata e vissuta per anni meritando dall'American National Society of Interiors Designers Foundation il Premio annuale per il miglior restauro ed il miglior arredo nel mondo, si sente dire che vi sia stato un contenzioso tra Carolina Olcese nata dal primo matrimonio di Vittorio con Giuliana, e gli eredi del secondo. Pare, che dalla morte del padre avvenuta nel 99, Carolina sia venuta a conoscenza delle sue parti di eredità al momento in cui la proprietà è stata trasferita al FAI e si è quindi resa indispensabile la sua firma. Se vera, sarebbe una gran bella storia...».
***
A
quanti chiedono spiegazioni circa le notizie che
tra date, stampa, servizi delle Tv venete, documenti, depliants, libri del FAI, la mia nota del 2 maggio 2006, vecchie interviste e vecchi articoli appaiono confuse e contrastanti tra loro, rispondo che come riscontrabile presso le Conservatorie di Padova e di Venezia, Villa dei Vescovi fu acquistata come comproprietà pro indiviso - comproprietà così denominata per la indivisibilità materiale di un monumento d'arte - da Vittorio Olcese per una metà pro indiviso e per l'altra metà da Giuliana de Cesare in Olcese direttamente dalla Curia di Padova, dal Vescovo Monsignor Bortignon, per 50 milioni di lire, con due contratti separati e distinti, due assegni emessi da ciascuno dei due acquirenti, due mutui erogati dall'Ente Ville Venete per i restauri, due contributi a fondo perduto di 9 milioni di lire ciascuno per il restauro degli affreschi. E, infine, la promessa tra Vittorio e me, il nostro reciproco impegno, che da proprietà privata un giorno divenisse bene pubblico. Giuliana D'Olcese ***
ASSOCIAZIONE
GIOVANI VENEZIANI
Cari amici, siete invitati alla inaugurazione della mostra fotografica SETTIMANA DEL DEGRADO che si terrà il lunedì 7 Maggio 2007 alle ore 19.00 presso la Sala espositiva della Chiesa di San Giovanni e Paolo Sarà presentata la collezione di 130 fotografie riguardanti il degrado e l'incuria di Venezia dopo trentadue anni di queste amministrazioni politiche, un percorso che vi farà inorridire tra lavori di restauro distruttivi, rii e canali impresentabili, luoghi storici violati, tra l'inciviltà dei cittadini che usano le calli come discariche e l'inadeguatezza delle istituzioni che in questi anni non hanno saputo mantenere, proteggere e conservare una città così preziosa e fragile come Venezia, lasciandola in uno stato di triste abbandono Un mezzo per sensibilizzare, educare ma soprattutto rispettare la cittadinanza veneziana Alla inaugurazione sono stati invitati i rappresentanti politici della città di Venezia, alcuni hanno già annunciato la loro presenza sarà quindi interessante conoscere la loro posizione davanti allo scempio che abbiamo documentato Speriamo di avervi numerosi per dare insieme a noi un segnale di vitalità e di impegno per Venezia Questa è la riva del Palazzo Ducale! Dove sono le forze dell’ordine che dovrebbero impedire un simile insulto? Questi sono i gradini del ponte di Rialto Questi amministratori hanno speso oltre 10milioni di euro per un inutile e mai costruito ponte detto di Calatrava. Ma non si preoccupano del ponte di Rialto Questo è il ponte della paglia: milioni di turisti vi sostano per godere del ponte dei sospiri. Ogni commento è superfluo Queste, e altre diverse centinaia di fotografie scattate dal gondoliere Marco Zanon, che potrete vedere nella mostra el Liòn Patrono di Venezia e le vicende delle sue reliquie LA VENETA SERENISSIMA REPUBBLICA E LA LAICITA' DELLO STATO a cura di Andrea Bonesso San Marco Evangelista 25 aprile sec. I Ebreo di origine, nacque probabilmente fuori della Palestina, da famiglia benestante. San Pietro, che lo chiama "figlio mio", lo ebbe certamente con sé nei viaggi missionari in Oriente e a Roma, dove avrebbe scritto il Vangelo. Oltre alla familiarità con san Pietro, Marco può vantare una lunga comunità di vita con l'apostolo Paolo, che incontrò nel 44, quando Paolo e Barnaba portarono a Gerusalemme la colletta della comunità di Antiochia. Al ritorno, Barnaba portò con sé il giovane nipote Marco, che più tardi si troverà al fianco di san Paolo a Roma. Nel 66 san Paolo ci dà l'ultima informazione su Marco, scrivendo dalla prigione romana a Timoteo: "Porta con te Marco. Posso bene aver bisogno dei suoi servizi". L'evangelista probabilmente morì nel 68, di morte naturale, secondo una relazione, o secondo un'altra come martire, ad Alessandria d'Egitto. Gli Atti di Marco (IV secolo) riferiscono che il 24 aprile venne trascinato dai pagani per le vie di Alessandria legato con funi al collo. Gettato in carcere, il giorno dopo subì lo stesso atroce tormento e soccombette. Il suo corpo, dato alle fiamme, venne sottratto alla distruzione dai fedeli. Secondo una leggenda due mercanti veneziani avrebbero portato il corpo nell'828 nella città della Venezia. (Avvenire) Patronato: Segretarie Etimologia: Marco nato in marzo, sacro a Marte, dal latino Emblema: Leone La figura dell'evangelista Marco, è conosciuta soltanto da quanto riferiscono gli Atti degli Apostoli e alcune lettere di s. Pietro e s. Paolo; non fu certamente un discepolo del Signore e probabilmente non lo conobbe neppure, anche se qualche studioso lo identifica con il ragazzo, che secondo il Vangelo di Marco, seguì Gesù dopo l'arresto nell'orto del Getsemani, avvolto in un lenzuolo; i soldati cercarono di afferrarlo ed egli sfuggì nudo, lasciando il lenzuolo nelle loro mani. Quel ragazzo era Marco, figlio della vedova benestante Maria, che metteva a disposizione del Maestro la sua casa in Gerusalemme e l'annesso orto degli ulivi. Nella grande sala della loro casa, fu consumata l'Ultima Cena e lì si radunavano gli apostoli dopo la Passione e fino alla Pentecoste. Quello che è certo è che fu uno dei primi battezzati da Pietro, che frequentava assiduamente la sua casa e infatti Pietro lo chiamava in senso spirituale "mio figlio". Discepolo degli Apostoli e martirio Nel 44 quando Paolo e Barnaba, parente del giovane, ritornarono a Gerusalemme da Antiochia, dove erano stati mandati dagli Apostoli, furono ospiti in quella casa; Marco il cui vero nome era Giovanni usato per i suoi connazionali ebrei, mentre il nome Marco lo era per presentarsi nel mondo greco-romano, ascoltava i racconti di Paolo e Barnaba sulla diffusione del Vangelo ad Antiochia e quando questi vollero ritornarci, li accompagnò. Fu con loro nel primo viaggio apostolico fino a Cipro, ma quando questi decisero di raggiungere Antiochia, attraverso una regione inospitale e paludosa sulle montagne del Tauro, Giovanni Marco rinunciò spaventato dalle difficoltà e se ne tornò a Gerusalemme. Cinque anni dopo, nel 49, Paolo e Barnaba ritornarono a Gerusalemme per difendere i Gentili convertiti, ai quali i giudei cristiani volevano imporre la legge mosaica, per poter ricevere il battesimo. Ancora ospitati dalla vedova Maria, rividero Marco, che desideroso di rifarsi della figuraccia, volle seguirli di nuovo ad Antiochia; quando i due prepararono un nuovo viaggio apostolico, Paolo non fidandosi, non lo volle con sé e scelse un altro discepolo, Sila e si recò in Asia Minore, mentre Barnaba si spostò a Cipro con Marco. In seguito il giovane deve aver conquistato la fiducia degli apostoli, perché nel 60, nella sua prima lettera da Roma, Pietro salutando i cristiani dell'Asia Minore, invia anche i saluti di Marco; egli divenne anche fedele collaboratore di Paolo e non esitò a seguirlo a Roma, dove nel 61 risulta che Paolo era prigioniero in attesa di giudizio, l'apostolo parlò di lui, inviando i suoi saluti e quelli di "Marco, il nipote di Barnaba" ai Colossesi; e a Timoteo chiese nella sua seconda lettera da Roma, di raggiungerlo portando con sé Marco "perché mi sarà utile per il ministero". Forse Marco giunse in tempo per assistere al martirio di Paolo, ma certamente rimase nella capitale dei Cesari, al servizio di Pietro, anch'egli presente a Roma. Durante gli anni trascorsi accanto al Principe degli Apostoli, Marco trascrisse, secondo la tradizione, la narrazione evangelica di Pietro, senza elaborarla o adattarla a uno schema personale, cosicché il suo Vangelo ha la scioltezza, la vivacità e anche la rudezza di un racconto popolare. Affermatosi solidamente la comunità cristiana di Roma, Pietro inviò in un primo momento il suo discepolo e segretario, ad evangelizzare l'Italia settentrionale; ad Aquileia Marco convertì Ermagora, diventato poi primo vescovo della città e dopo averlo lasciato, s'imbarcò e fu sorpreso da una tempesta, approdando sulle isole Rialtine (primo nucleo della futura Venezia), dove si addormentò e sognò un angelo che lo salutò: "Pax tibi Marce evangelista meus" e gli promise che in quelle isole avrebbe dormito in attesa dell'ultimo giorno. Secondo un'antichissima tradizione, Pietro lo mandò poi ad evangelizzare Alessandria d'Egitto, qui Marco fondò la Chiesa locale diventandone il primo vescovo. Nella zona di Alessandria subì il martirio, sotto l'imperatore Traiano (53-117); fu torturato, legato con funi e trascinato per le vie del villaggio di Bucoli, luogo pieno di rocce e asperità; lacerato dalle pietre, il suo corpo era tutta una ferita sanguinante. Dopo una notte di carcere, dove venne confortato da un angelo, Marco fu trascinato di nuovo per le strade, finché morì un 25 aprile verso l'anno 72, secondo gli "Atti di Marco" all'età di 57 anni; ebrei e pagani volevano bruciarne il corpo, ma un violento uragano li fece disperdere, permettendo così ad alcuni cristiani, di recuperare il corpo e seppellirlo a Bucoli in una grotta; da lì nel V secolo fu traslato nella zona del Canopo. Il Vangelo Il Vangelo di Marco è stato il primo ad essere scritto, probabilmente tra il 50 e il 65 d.C. Esso presenta uno stile semplice ed utilizza un linguaggio facilmente comprensibile, con prevalenza di strutture paratattiche, tipiche della lingua parlata del tempo. Secondo la tradizione, Marco fu collaboratore di Pietro, di cui avrebbe riportato per iscritto la catechesi. Lo schema dell'opera è comune a quello degli altri due sinottici, Matteo e Luca: attività di Giovanni il Battista, ministero di Gesù in Galilea, ministero in Giudea e a Gerusalemme, passione morte e resurrezione. Le vicende delle sue reliquie - Patrono di Venezia La chiesa costruita al Canopo di Alessandria, che custodiva le sue reliquie, fu incendiata nel 644 dagli arabi e ricostruita in seguito dai patriarchi di Alessandria, Agatone (662-680), e Giovanni di Samanhud (680-689). E in questo luogo nell'828, approdarono i due mercanti veneziani Buono da Malamocco e Rustico da Torcello, che s'impadronirono delle reliquie dell'Evangelista minacciate dagli arabi, trasferendole a Venezia, dove giunsero il 31 gennaio 828, superando il controllo degli arabi, una tempesta e l'arenarsi su una secca. Le reliquie furono accolte con grande onore dal doge Giustiniano Partecipazio, figlio e successore del primo doge delle Isole di Rialto, Agnello; e riposte provvisoriamente in una piccola cappella, luogo oggi identificato dove si trova il tesoro di San Marco. Iniziò la costruzione di una basilica, che fu portata a termine nell'832 dal fratello Giovanni suo successore; Dante nel suo memorabile poema scrisse. "Cielo e mare vi posero mano", ed effettivamente la Basilica di San Marco è un prodigio di marmi e d'oro al confine dell'arte. Ma la splendida Basilica ebbe pure i suoi guai, essa andò distrutta una prima volta da un incendio nel 976, provocato dal popolo in rivolta contro il doge Candiano IV (959-976) che lì si era rifugiato insieme al figlio; in quell'occasione fu distrutto anche il vicino Palazzo Ducale. Nel 976-978, il doge Pietro Orseolo I il Santo, ristrutturò a sue spese sia il Palazzo che la Basilica; l'attuale 'Terza San Marco' fu iniziata invece nel 1063, per volontà del doge Domenico I Contarini e completata nei mosaici e marmi dal doge suo successore, Domenico Selvo (1071-1084). La Basilica fu consacrata nel 1094, quando era doge Vitale Falier; ma già nel 1071 s. Marco fu scelto come titolare della Basilica e Patrono principale della Serenissima, al posto di s. Teodoro, che fino all'XI secolo era il patrono e l'unico santo militare venerato dappertutto. Le due colonne monolitiche poste tra il molo e la piazzetta, portano sulla sommità rispettivamente l'alato Leone di S. Marco e il santo guerriero Teodoro, che uccide un drago simile ad un coccodrillo. La cerimonia della dedicazione e consacrazione della Basilica, avvenuta il 25 aprile 1094, fu preceduta da un triduo di penitenza, digiuno e preghiere, per ottenere il ritrovamento delle reliquie dell'Evangelista, delle quali non si conosceva più l'ubicazione. Dopo la Messa celebrata dal vescovo, si spezzò il marmo di rivestimento di un pilastro della navata destra, a lato dell'ambone e comparve la cassetta contenente le reliquie, mentre un profumo dolcissimo si spargeva per la Basilica. Venezia restò indissolubilmente legata al suo Santo patrono, il cui simbolo di evangelista, il leone alato che artiglia un libro con la già citata scritta: "Pax tibi Marce evangelista meus", divenne lo stemma della Serenissima, che per secoli fu posto in ogni angolo della città ed elevato in ogni luogo dove portò il suo dominio. San Marco è patrono dei notai, degli scrivani, dei vetrai, dei pittori su vetro, degli ottici; la sua festa è il 25 aprile, data che ha fatto fiorire una quantità di detti e proverbi. IL CONCETTO DI LAICITA' La nascita e lo sviluppo del termine "laico". Il termine "laico", insieme ai vocaboli collegati, ha alle spalle una storia ricca nonché curiosa. Nei primi secoli del cristianesimo indicava il battezzato che apparteneva alla Chiesa. I cristiani, infatti, si definivano "il popolo di Dio" (o laòs tou Theou, in greco, la parola "laòs" significa appunto popolo). In seguito, con il progressivo differenziarsi dei ruoli nella Chiesa, acquistano sempre maggiore importanza i battezzati insigniti anche del sacramento dell'ordine sacro. Lentamente si forma una gerarchia, denominata "clero". Nel periodo medievale tutto il potere e la cultura sono saldamente nelle mani del clero; proprio in questa fase la parola "laico" comincia ad essere sinonimo di illetterato, popolano dai costumi poco raffinati. Con la società ormai tutta cristiana, si arriva ad affermare che "duo sunt genera christianorum: clerici et idiotes" (decretum Gratiani, 1140). Quest'ultimo appellativo è utilizzato per indicare i cristiani laici, cioè i semplici battezzati che vivono la loro fede nelle ordinarie condizioni di vita. La riforma luterana (XVI sec.) ha avuto il merito di rivalutare, dal punto di vista teologico ed ecclesiale, il cosiddetto "sacerdozio comune dei fedeli", liberando il laico cristiano dall'essere un semplice esecutore delle direttive della gerarchia ecclesiastica e rivalutando gli impegni conseguenti al battesimo. In questo modo inizia una rinnovata, almeno nelle Chiese della riforma, presenza laicale ed il termine viene liberato dall'accezione negativa che aveva assunto. Una novità radicale: la rivoluzione francese. Gli eventi del 1789, preparati dal pensiero liberale ed illuminista, segnano una svolta nella comprensione di chi sia "laico". Il termine, nato nel cristianesimo, per una strana eterogenesi dei fini assume un significato di opposizione a questa fede e finisce per indicare, in modo da opporsi al clero legato all'ancien regime da abbattere, chi non si riconosce nelle Chiese cristiane. Nel corso del XIX sec., poi, si riveste di significati chiaramente anticristiani, antiecclesiali ed anticlericali. Con la nascita degli stati nazionali, l'espressione "stato laico", in Europa, indica un sistema statale neutrale e perfino indifferente nei confronti del cristianesimo. Portando alle estreme conseguenze la riflessione illuminista, si può affermare che la religione, depurata dai suoi aspetti dogmatici e soprannaturali, viene relegata nell'ambito della sfera privata della vita della persona e serve soltanto come orientamento nelle scelte del singolo in materia morale. Questo approccio è chiaramente presente nell'opera di I. Kant "La religione nei limiti della ragione". Se quelle esposte sono le caratteristiche dell'illuminismo francese diffusosi anche in Spagna e nella penisola italiana, ben diverso è l'illuminismo di stampo anglosassone e, segnatamente, americano. In questo contesto la religione (il cristianesimo) continua ad avere un ruolo pubblico, nei termini di "religione civile". Essa, più che esperienza di fede, diventa fondamento di valori condivisi. Emblematico, in questo senso, è quanto riportato sulle banconote americane: "In God we trust", "ci uniamo in Dio". La situazione attuale. Il panorama odierno vede la compresenza di interpretazioni diverse del concetto di laicità. Non vi è dubbio alcuno sul fatto che la distinzione tra religione e società o religione e stato sia da ascrivere al celebre detto di Cristo "Rendete a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio" (Mc. 12,17 e parr.). Pertanto è il cristianesimo che ha desacralizzato l'autorità politica e ne ridimensionato funzioni e potere. Già nella cultura ebraica prima di Cristo, tuttavia, il sovrano non era un despota assoluto o l'emanazione degli dei immortali, ma doveva ispirarsi, nel suo agire, alla legge divina (i cosiddetti dieci comandamenti). Pertanto, si può concludere che è proprio della religione giudaico-cristiana distinguere fede e politica nonché limitare l'invadenza delle strutture statuali. Un regime totalitario è incompatibile con la fede giudaico-cristiana. La condizione di laicità è, quindi, il riconoscimento della distinzione dei piani religioso e socio-politico nonché della loro autonomia, cioè del fatto che hanno leggi e finalità proprie. Si è parlato di "distinzione" e non "separazione". Questo significa che ogni legge dello stato, per l'ebreo e il cristiano, deve essere sottoposta al vaglio della propria coscienza credente. Ma vuol dire pure che il credente può tranquillamente rendere pubbliche le convinzioni personali derivanti dalla fede che abbraccia. Questa possibilità è negata dai neoilluministi europei che vorrebbero ricacciare la religione nel privato, divenendo così sostenitori del laicismo. E' palese che un sistema democratico maturo deve consentire il libero ed argomentato confronto di diverse visioni della vita e del mondo, pena il tradimento dei presupposti di tolleranza e libertà di espressione che garantisce. Le visioni del mondo che ispirano anche i progetti politici possono derivare da concezioni religiose. E' innegabile che alcuni valori di fondo della tradizione giudaico-cristiana abbiano contraddistinto ed influenzato la cultura europea: pensiamo, fra gli altri, al diritto alla vita, alla dignità della persona ed alla solidarietà nei confronti dei più deboli. Posizione del Veneto Serenissimo Governo Il Veneto Serenissimo Governo ritiene che sia necessario fondare il proprio progetto e la propria azione su quei grandi valori legati alla religione giuidaico-cristiana, espressi anche nella seconda parte delle "tavole della Legge" e noti come "comandamenti di tipo sociale". Risponde a questa scelta, oltre la solidità di tali insegnamenti, anche la costante determinazione di collocarsi nella storia e cultura europee nonché marciane. Il Veneto Serenissimo Governo conferma che soltanto su quella base è possibile garantire un futuro per le genti venete, ma pure per ogni popolo che aspiri ad essere veramente libero. IL DECALOGO Le leggi che presiederanno ai rapporti sociali e all'ordinamento giuridico della Veneta Serenissima Repubblica sono: onora il padre e la madre - non uccidere - non commettere atti impuri - non rubare - non dire falsa testimonianza - non desiderare la donna d'altri - non desiderare la roba d'altri (da PERONI L, Appello al Popolo Veneto per la liberazione della Veneta Patria, tesi n.11 2006, p. 9.) Il decalogo biblico, sicuramente uno dei passi più noti di tutta la Scrittura giudaico-cristiana, compare in due redazioni: Es 20, 1-17 e Dt 5,6-21. Le due versioni differiscono per la motivazione circa l'osservanza del riposo sabbatico e per alcuni vocaboli. Esso, pur presentando analogie con disposizioni giuridico-morali di culture coeve, è stato formulato all'interno della fede giudaica. Pertanto la sua comprensione più autentica si ha facendo riferimento alla rivelazione biblica. Il contesto per apprezzarlo compiutamente è quello dell'alleanza o patto (berìt) tra Dio ed il suo popolo. Le dieci parole, meglio note come dieci comandamenti, vengono di solito divise in due gruppi: quelle riguardanti Dio ed il suo culto (prime tre) e le restanti sette aventi come oggetto la vita di relazione. In realtà separare i due gruppi è una forzatura; infatti, pure i comandamenti di natura "sociale" sono rivolti ad una comunità di persone credenti. Il loro oggetto è sempre la stessa fede nell'unico Dio, vissuta, però, nei rapporti interpersonali. I precetti vanno letti e vissuti sullo sfondo dell'esperienza di liberazione e libertà costituita dall'esodo dall'Egitto; essi sono un forte orientamento per consentire alle persone di continuare ad essere e vivere in libertà. L'avvento del cristianesimo ha portato a compimento il contenuto delle dieci parole. Cristo rilegge i comandamenti nella mirabile sintesi di amore di Dio e del prossimo (Mc 12,29-31 e parr.). "Onora il padre e la madre" La vita, data da Dio, è trasmessa dai genitori. Il verbo ebraico "kabed" contiene l'idea di peso, pertanto "onora" si può tradurre con "dà tutta l'importanza". Nell'ambito dei precetti che si riferiscono al prossimo, si potrebbe affermare che i genitori sono il primo prossimo. Di essi bisogna prendersi cura per tutta la vita. I genitori sono in modo speciale "immagine di Dio" che è Padre (Os 11,1-4; Is 1,2; Ger 3,19) ed ha un cuore di madre (Is 49,15; Ger 31,20). Nel mondo biblico la storia è data dal susseguirsi delle generazioni (si pensi alla lunga serie di genealogie nel libro della Genesi); la tradizione è un concetto fondamentale, alla cui base vi è la trasmissione della vita, che avviene in famiglia. "Non uccidere" Ancora la vita e la sua protezione sono oggetto di attenzione. Il verbo utilizzato, "ratsach", indica la morte o l'assassinio di un nemico personale, ma fuori da operazioni belliche. Si tratta, quindi, della morte inflitta illegalmente, la morte che contraddice la vita comunitaria del popolo. Tuttavia non uccidere non significa soltanto lasciar vivere, ma pure non lasciar morire quando si dispone della vita degli altri: "Sacrifica un figlio davanti al proprio padre chi offre un sacrificio con i beni dei poveri. Il pane dei bisognosi è la vita dei poveri, toglierlo a loro è commettere un assassinio. Uccide il prossimo chi toglie il nutrimento, versa sangue chi rifiuta il salario all'operaio". (Sir 34,20-22) "Non commettere atti impuri" Anche questo comandamento è ordinato alla difesa ed alla propagazione della vita. Il matrimonio implica fedeltà reciproca degli sposi; non solo perché continui ad esistere la famiglia, senza la quale i figli non sarebbero sicuri di vivere, ma perché l'unione coniugale nasce dall'amore e l'amore è sempre fedele. Il matrimonio, nella Bibbia, è sempre visto in relazione all'alleanza Dio-popolo (Os 1-2;11-14). L'infedeltà d'Israele al patto con il Signore è vista come adulterio. "Non rubare" Pure questo precetto concerne il tema della tutela della vita; infatti, quanto ciascuno possiede è necessità o fattore di vita. Non retribuire adeguatamente l'operaio è anche un furto, così come l'oppressione della povera gente ad opera dei potenti di turno. Il principio basilare è enunciato in Lv 25,23 dove il Signore afferma che "la terra è mia e voi siete presso di me come forestieri e inquilini". L'uomo è chiamato ad amministrarla con equità. "Non dire falsa testimonianza" Il verbo "anah" indica "prendere pubblicamente la parola" ma anche "rispondere davanti ad un tribunale". Tuttavia il concetto di falso testimone è vicino a quello di menzogna, che compromette la vita degli altri. Il precetto non condanna direttamente la menzogna, da un lato perché la falsa testimonianza ne è il caso più grave e, dall'altro, in quanto l'esempio concreto risulta più incisivo di una sentenza generale. E' legittimo, pertanto, rilevare come oggetto di condanna sia la menzogna in generale. "Non desiderare..." Nella versione originale del decalogo i due comandamenti che la tradizione catechistica della Chiesa Cattolica ha diviso, sono uniti e riguardano le intenzioni profonde del soggetto e non singoli atti come gli altri. Il significato si coglie ricordando che, nella redazione del decalogo presente nel libro del Deuteronomio (Dt 5,21) il verbo "hitawah" vuol dire "desiderare" nel senso di disposizione interiore cui non necessariamente segue un atto. Quindi l'attenzione è centrata sul cuore delle persone. E' la volontà che non deve essere schiava di istinti e passioni. Senza dimenticare che la cupidigia si alimenta anche con il contatto con gli altri: ciò che viene oggi definito come influenza dell'ambiente sul singolo. Questo precetto tutela la libertà interiore dell'uomo. Perché questa scelta? Porre come fondamento delle future leggi della Veneta Serenissima Repubblica la seconda parte delle "dieci parole", comporta inequivocabilmente schierarsi dalla parte della vita e della libertà.
|