VILLA DEI VESCOVI

Zanon, e FAI xe el fogo se magna Venexia?

«Palazzo Chigi con la bellezza di 13 «aerei blu» - più quelli a noleggio -

e Venexia?

Venezia con un solo vecchio e malandato elicottero per spegnere gli incendi»

La Presidente del FAI: «Prodi dimentica l'ambiente. Promettono ma non mantengono»

el Liòn Patrono di Venezia e le vicende delle sue reliquie

Commento di un Veneto

Che bel se'l se li magnassi tuti quei fioi de can...
un baxeto... Sandro

Roma, 24 Maggio 2007

Professor Zanon, e fai xe el fogo se magna Venexia? Poi come la mettiamo?
Questa la mia risposta alla nota «Il degrado a Venezia» diramata dal Professor Luigi Gigio Zanon - strenuo ed infaticabile cittadino a difesa della sua città - inviata alle Giunte del Comune di Venezia e della Regione Veneto, al Capo del Governo, al sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei ministri ed al ministro dell'Interno, alla Segreteria particolare del ministro per gli Affari Regionali, a membri del FAI, alla Stampa locale, a cittadini veneti - e non veneti - ai 73.000 destinatari che ricevono la mia Newsletter, a Stampa nazionale ed Agenzie di stampa, a siti internet, Google, Yahoo ed altri motori di ricerca e lettori della mia rubrica on line con l'invito a sostenere questa ennesima battaglia del Professor Zanon a favore della sua amatissima Venexia, patrimonio del mondo, perchè venga dotata dei mezzi idonei contro gli incendi che hanno già mietuto troppe vittime e devastato il Teatro alla Fenice, il Mulino Stucky, Palazzo Coin a Rialto, la Casa d'accoglienza per disabili mentali a San Marco, la chiesa di San Geremia, un palazzo a Campo della Guerra, la Sinagoga, Palazzo Volpi a San Beneto ed altre realtà monumentali e storiche.
Qualche giorno dopo Gian Antonio Stella, coautore con Sergio Rizzo de «La casta» - una precisa ed impietosa analisi degli scandalosi costi della politica e dei politici -  scriveva nell'articolo intitolato «Venezia, contro il fuoco un solo elicottero e tanti serenissimi Santi» Tema: è giusto che palazzo Chigi abbia la bellezza di 13 «aerei blu» (più quelli a noleggio) che hanno volato complessivamente nel 2005 per 37 ore al giorno costando ben 65 milioni di euro mentre non si trovano i soldi per un secondo elicottero che limiti i rischi nella più bella delle città a rischio? Per non dire dei vigili del fuoco che sugli elicotteri si giocano la pelle per spegnere gli incendi.
Per avventurarsi in imprese come quei 23 giri notturni sulla Fenice, (in fiamme (ndr) un pilota con oltre 25 anni di servizio pagato 1.380 euro al mese (1380!) ha un'indennità di volo di 560 euro: 18 euro e 66 centesimi al giorno. Hanno chiesto il minimo «gli angeli del fuoco»: lo stesso trattamento degli elicotteristi della Polizia, che dipendono dallo stesso ministero degli Interni ma che guadagnano molto di più». «Il sottosegretario Ettore Rosato, - conclude Stella - allargando le braccia, ha risposto di no: la cosa costerebbe 4 milioni di euro. Troppi, per uno Stato che porta le Loro Eccellenze anche alle feste private in giro per l'Europa o in pellegrinaggio al monte Athos ma poi deve anche risparmiare». Ma che faccia 'e cuorno stu' sottosegretario però!
Su quanto accade all'ambiente naturale ed umano di Venezia senza che nessuno se ne curi da anni ed anni, l'articolo di Stella va letto per intero augurandosi che, finalmente, le istituzioni nazionali, regionali e locali provvedano a porre fine a questo stato di cose da terzo mondo. Ripeto, per capire in quale grado di abbandono è sprofondata Venezia, l'articolo di Stella va letto dalla prima parola fino all'ultima. Chi non l'ha letto lo chieda scrivendo Gstella#rcs.it perchè questo che riporto è solo un piccolo esempio delle drammatiche realtà descritte da un veneto qual'è Gian Antonio Stella e dei faraonici sperperi a cui si abbandonano ed in cui sguazzano le nostre istituzioni e il nostro Stato, veri satrapi attuali.
«Il Premier? Per ora non ha dimostrato particolare attenzione ai temi della difesa ambientale, Prodi dimentica l'ambiente. Promettono ma non mantengono» ha dichiarato Giulia Maria Mozzoni Crespi - dal 1975 fondatrice e presidente del Fai Fondo per l'Ambiente Italiano - al quotidiano La Stampa nel corso della conferenza stampa svoltasi il 2 marzo scorso a Luvigliano di Torreglia nel brolo della Villa dei Vescovi la dimora rinascimentale dei Vescovi di Padova immersa nei Colli Euganei acquistata nel 1962 da Vittorio Olcese e da me in comproprietà pro indiviso - realtà storica e catastale, questa, di cui istituzioni ed altre entità, diciamo «misogine», omettono di menzionare. Comproprietà che sin da allora ci impegnammo l'un l'altra a che ne avremmo fatto dono allo Stato o ad una Fondazione perchè durasse nei secoli futuri. Buon lavoro, a tutti, dunque.

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el Liòn Patrono di Venezia e le vicende delle sue reliquie

LA VENETA SERENISSIMA REPUBBLICA E LA LAICITA' DELLO STATO

a cura di Andrea Bonesso

San Marco Evangelista

25 aprile sec. I

 

Ebreo di origine, nacque probabilmente fuori della Palestina, da famiglia benestante. San Pietro, che lo chiama «figlio mio», lo ebbe certamente con sé nei viaggi missionari in Oriente e a Roma, dove avrebbe scritto il Vangelo. Oltre alla familiarità con san Pietro, Marco può vantare una lunga comunità di vita con l'apostolo Paolo, che incontrò nel 44, quando Paolo e Barnaba portarono a Gerusalemme la colletta della comunità di Antiochia. Al ritorno, Barnaba portò con sé il giovane nipote Marco, che più tardi si troverà al fianco di san Paolo a Roma. Nel 66 san Paolo ci dà l'ultima informazione su Marco, scrivendo dalla prigione romana a Timoteo:
«Porta con te Marco. Posso bene aver bisogno dei suoi servizi». L'evangelista probabilmente morì nel 68, di morte naturale, secondo una relazione, o secondo un'altra come martire, ad Alessandria d'Egitto. Gli Atti di Marco (IV secolo) riferiscono che il 24 aprile venne trascinato dai pagani per le vie di Alessandria legato con funi al collo. Gettato in carcere, il giorno dopo subì lo stesso atroce tormento e soccombette. Il suo corpo, dato alle fiamme, venne sottratto alla distruzione dai fedeli.
Secondo una leggenda due mercanti veneziani avrebbero portato il corpo nell'828 nella città della Venezia. (Avvenire)

Patronato: Segretarie
Etimologia: Marco nato in marzo, sacro a Marte, dal latino
Emblema: Leone

La figura dell'evangelista Marco, è conosciuta soltanto da quanto riferiscono gli Atti degli Apostoli e alcune lettere di s. Pietro e s. Paolo; non fu certamente un discepolo del Signore e probabilmente non lo conobbe neppure, anche se qualche studioso lo identifica con il ragazzo, che secondo il Vangelo di Marco, seguì Gesù dopo l'arresto nell'orto del Getsemani, avvolto in un lenzuolo; i soldati cercarono di afferrarlo ed egli sfuggì nudo, lasciando il lenzuolo nelle loro mani.
Quel ragazzo era Marco, figlio della vedova benestante Maria, che metteva a disposizione del Maestro la sua casa in Gerusalemme e l'annesso orto degli ulivi.
Nella grande sala della loro casa, fu consumata l'Ultima Cena e lì si radunavano gli apostoli dopo la Passione e fino alla Pentecoste. Quello che è certo è che fu uno dei primi battezzati da Pietro, che frequentava assiduamente la sua casa e infatti Pietro lo chiamava in senso spirituale «mio figlio»

 

Discepolo degli Apostoli e martirio

 

Nel 44 quando Paolo e Barnaba, parente del giovane, ritornarono a Gerusalemme da Antiochia, dove erano stati mandati dagli Apostoli, furono ospiti in quella casa; Marco il cui vero nome era Giovanni usato per i suoi connazionali ebrei, mentre il nome Marco lo era per presentarsi nel mondo greco-romano, ascoltava i racconti di Paolo e Barnaba sulla diffusione del Vangelo ad Antiochia e quando questi vollero ritornarci, li accompagnò. Fu con loro nel primo viaggio apostolico fino a Cipro, ma quando questi decisero di raggiungere Antiochia, attraverso una regione inospitale e paludosa sulle montagne del Tauro, Giovanni Marco rinunciò spaventato dalle difficoltà e se ne tornò a Gerusalemme. Cinque anni dopo, nel 49, Paolo e Barnaba ritornarono a Gerusalemme per difendere i Gentili convertiti, ai quali i giudei cristiani volevano imporre la legge mosaica, per poter ricevere il battesimo.
Ancora ospitati dalla vedova Maria, rividero Marco, che desideroso di rifarsi della figuraccia, volle seguirli di nuovo ad Antiochia, quando i due prepararono un nuovo viaggio apostolico, Paolo non fidandosi, non lo volle con sé e scelse un altro discepolo, Sila e si recò in Asia Minore, mentre Barnaba si spostò a Cipro con Marco.
In seguito il giovane deve aver conquistato la fiducia degli apostoli, perché nel 60, nella sua prima lettera da Roma, Pietro salutando i cristiani dell'Asia Minore, invia anche i saluti di Marco, egli divenne anche fedele collaboratore di Paolo e non esitò a seguirlo a Roma, dove nel 61 risulta che Paolo era prigioniero in attesa di giudizio, l'apostolo parlò di lui, inviando i suoi saluti e quelli di «Marco, il nipote di Barnaba» ai Colossesi, e a Timoteo chiese nella sua seconda lettera da Roma, di raggiungerlo portando con sé Marco «perché mi sarà utile per il ministero». Forse Marco giunse in tempo per assistere al martirio di Paolo, ma certamente rimase nella capitale dei Cesari, al servizio di Pietro, anch'egli presente a Roma.
Durante gli anni trascorsi accanto al Principe degli Apostoli, Marco trascrisse, secondo la tradizione, la narrazione evangelica di Pietro, senza elaborarla o adattarla a uno schema personale, cosicché il suo Vangelo ha la scioltezza, la vivacità e anche la rudezza di un racconto popolare. Affermatosi solidamente la comunità cristiana di Roma, Pietro inviò in un primo momento il suo discepolo e segretario, ad evangelizzare l'Italia settentrionale, ad Aquileia Marco convertì Ermagora, diventato poi primo vescovo della città e dopo averlo lasciato, s'imbarcò e fu sorpreso da una tempesta, approdando sulle isole Rialtine (primo nucleo della futura Venezia), dove si addormentò e sognò un angelo che lo salutò: «Pax tibi Marce evangelista meus» e gli promise che in quelle isole avrebbe dormito in attesa dell'ultimo giorno.
Secondo un'antichissima tradizione, Pietro lo mandò poi ad evangelizzare Alessandria d'Egitto, qui Marco fondò la Chiesa locale diventandone il primo vescovo.
Nella zona di Alessandria subì il martirio, sotto l'imperatore Traiano (53-117); fu torturato, legato con funi e trascinato per le vie del villaggio di Bucoli, luogo pieno di rocce e asperità, lacerato dalle pietre, il suo corpo era tutta una ferita sanguinante. Dopo una notte di carcere, dove venne confortato da un angelo, Marco fu trascinato di nuovo per le strade, finché morì un 25 aprile verso l'anno 72, secondo gli «Atti di Marco» all'età di 57 anni; ebrei e pagani volevano bruciarne il corpo, ma un violento uragano li fece disperdere, permettendo così ad alcuni cristiani, di recuperare il corpo e seppellirlo a Bucoli in una grotta; da lì nel V secolo fu traslato nella zona del Canopo.

 

Il Vangelo

 

 Il Vangelo di Marco è stato il primo ad essere scritto, probabilmente tra il 50 e il 65 d.C. Esso presenta uno stile semplice ed utilizza un linguaggio facilmente comprensibile, con prevalenza di strutture paratattiche, tipiche della lingua parlata del tempo. Secondo la tradizione, Marco fu collaboratore di Pietro, di cui avrebbe riportato per iscritto la catechesi. Lo schema dell'opera è comune a quello degli altri due sinottici, Matteo e Luca: attività di Giovanni il Battista, ministero di Gesù in Galilea, ministero in Giudea e a Gerusalemme, passione morte e resurrezione.

 

Le vicende delle sue reliquie - Patrono di Venezia

 

La chiesa costruita al Canopo di Alessandria, che custodiva le sue reliquie, fu incendiata nel 644 dagli arabi e ricostruita in seguito dai patriarchi di Alessandria, Agatone (662-680), e Giovanni di Samanhud (680-689). E in questo luogo nell'828, approdarono i due mercanti veneziani Buono da Malamocco e Rustico da Torcello, che s'impadronirono delle reliquie dell'Evangelista minacciate dagli arabi, trasferendole a Venezia, dove giunsero il 31 gennaio 828, superando il controllo degli arabi, una tempesta e l'arenarsi su una secca. Le reliquie furono accolte con grande onore dal doge Giustiniano Partecipazio, figlio e successore del primo doge delle Isole di Rialto, Agnello, e riposte provvisoriamente in una piccola cappella, luogo oggi identificato dove si trova il tesoro di San Marco. Iniziò la costruzione di una basilica, che fu portata a termine nell'832 dal fratello Giovanni suo successore, Dante nel suo memorabile poema scrisse. «Cielo e mare vi posero mano», ed effettivamente la Basilica di San Marco è un prodigio di marmi e d'oro al confine dell'arte. Ma la splendida Basilica ebbe pure i suoi guai, essa andò distrutta una prima volta da un incendio nel 976, provocato dal popolo in rivolta contro il doge Candiano IV (959-976) che lì si era rifugiato insieme al figlio, in quell'occasione fu distrutto anche il vicino Palazzo Ducale.
Nel 976-978, il doge Pietro Orseolo I il Santo, ristrutturò a sue spese sia il Palazzo che la Basilica, l'attuale 'Terza San Marco' fu iniziata invece nel 1063, per volontà del doge Domenico I Contarini e completata nei mosaici e marmi dal doge suo successore, Domenico Selvo (1071-1084). La Basilica fu consacrata nel 1094, quando era doge Vitale Falier; ma già nel 1071 s. Marco fu scelto come titolare della Basilica e Patrono principale della Serenissima, al posto di s. Teodoro, che fino all'XI secolo era il patrono e l'unico santo militare venerato dappertutto. Le due colonne monolitiche poste tra il molo e la piazzetta, portano sulla sommità rispettivamente l'alato Leone di S. Marco e il santo guerriero Teodoro, che uccide un drago simile ad un coccodrillo.
La cerimonia della dedicazione e consacrazione della Basilica, avvenuta il 25 aprile 1094, fu preceduta da un triduo di penitenza, digiuno e preghiere, per ottenere il ritrovamento delle reliquie dell'Evangelista, delle quali non si conosceva più l'ubicazione. Dopo la Messa celebrata dal vescovo, si spezzò il marmo di rivestimento di un pilastro della navata destra, a lato dell'ambone e comparve la cassetta contenente le reliquie, mentre un profumo dolcissimo si spargeva per la Basilica.
Venezia restò indissolubilmente legata al suo Santo patrono, il cui simbolo di evangelista, il leone alato che artiglia un libro con la già citata scritta: «Pax tibi Marce evangelista meus», divenne lo stemma della Serenissima, che per secoli fu posto in ogni angolo della città ed elevato in ogni luogo dove portò il suo dominio. San Marco è patrono dei notai, degli scrivani, dei vetrai, dei pittori su vetro, degli ottici, la sua festa è il 25 aprile, data che ha fatto fiorire una quantità di detti e proverbi.

 

IL CONCETTO DI LAICITA'

 

La nascita e lo sviluppo del termine «laico».
Il termine «laico», insieme ai vocaboli collegati, ha alle spalle una storia ricca nonché curiosa. Nei primi secoli del cristianesimo indicava il battezzato che apparteneva alla Chiesa. I cristiani, infatti, si definivano «il popolo di Dio» (o laòs tou Theou, in greco, la parola «laòs» significa appunto popolo). In seguito, con il progressivo differenziarsi dei ruoli nella Chiesa, acquistano sempre maggiore importanza i battezzati insigniti anche del sacramento dell'ordine sacro. Lentamente si forma una gerarchia, denominata «clero». Nel periodo medievale tutto il potere e la cultura sono saldamente nelle mani del clero, proprio in questa fase la parola «laico» comincia ad essere sinonimo di illetterato, popolano dai costumi poco raffinati. Con la società ormai tutta cristiana, si arriva ad affermare che «duo sunt genera christianorum: clerici et idiotes» (decretum Gratiani, 1140). Quest'ultimo appellativo è utilizzato per indicare i cristiani laici, cioè i semplici battezzati che vivono la loro fede nelle ordinarie condizioni di vita. La riforma luterana (XVI sec.) ha avuto il merito di rivalutare, dal punto di vista teologico ed ecclesiale, il cosiddetto «sacerdozio comune dei fedeli», liberando il laico cristiano dall'essere un semplice esecutore delle direttive della gerarchia ecclesiastica e rivalutando gli impegni conseguenti al battesimo.
In questo modo inizia una rinnovata, almeno nelle Chiese della riforma, presenza laicale ed il termine viene liberato dall'accezione negativa che aveva assunto.
Una novità radicale: la rivoluzione francese.
Gli eventi del 1789, preparati dal pensiero liberale ed illuminista, segnano una svolta nella comprensione di chi sia «laico». Il termine, nato nel cristianesimo, per una strana eterogenesi dei fini assume un significato di opposizione a questa fede e finisce per indicare, in modo da opporsi al clero legato all'ancien regime da abbattere, chi non si riconosce nelle Chiese cristiane. Nel corso del XIX sec., poi, si riveste di significati chiaramente anticristiani, antiecclesiali ed anticlericali.
Con la nascita degli stati nazionali, l'espressione «stato laico», in Europa, indica un sistema statale neutrale e perfino indifferente nei confronti del cristianesimo.
Portando alle estreme conseguenze la riflessione illuminista, si può affermare che la religione, depurata dai suoi aspetti dogmatici e soprannaturali, viene relegata nell'ambito della sfera privata della vita della persona e serve soltanto come orientamento nelle scelte del singolo in materia morale.
Questo approccio è chiaramente presente nell'opera di I. Kant.
«La religione nei limiti della ragione»
Se quelle esposte sono le caratteristiche dell'illuminismo francese diffusosi anche in Spagna e nella penisola italiana, ben diverso è l'illuminismo di stampo anglosassone e, segnatamente, americano. In questo contesto la religione (il cristianesimo) continua ad avere un ruolo pubblico, nei termini di «religione civile».
Essa, più che esperienza di fede, diventa fondamento di valori condivisi. Emblematico, in questo senso, è quanto riportato sulle banconote americane: «In God we trust», «ci uniamo in Dio». La situazione attuale. Il panorama odierno vede la compresenza di interpretazioni diverse del concetto di laicità.
Non vi è dubbio alcuno sul fatto che la distinzione tra religione e società o religione e stato sia da ascrivere al celebre detto di Cristo «Rendete a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio»  (Mc. 12,17 e parr.). Pertanto è il cristianesimo che ha desacralizzato l'autorità politica e ne ridimensionato funzioni e potere.
Già nella cultura ebraica prima di Cristo, tuttavia, il sovrano non era un despota assoluto o l'emanazione degli dei immortali, ma doveva ispirarsi, nel suo agire, alla legge divina (i cosiddetti dieci comandamenti). Pertanto, si può concludere che è proprio della religione giudaico-cristiana distinguere fede e politica nonché limitare l'invadenza delle strutture statuali.
Un regime totalitario è incompatibile con la fede giudaico-cristiana.
La condizione di laicità è, quindi, il riconoscimento della distinzione dei piani religioso e socio-politico nonché della loro autonomia, cioè del fatto che hanno leggi e finalità proprie. Si è parlato di «distinzione» e non «separazione». Questo significa che ogni legge dello stato, per l'ebreo e il cristiano, deve essere sottoposta al vaglio della propria coscienza credente. Ma vuol dire pure che il credente può tranquillamente rendere pubbliche le convinzioni personali derivanti dalla fede che abbraccia. Questa possibilità è negata dai neoilluministi europei che vorrebbero ricacciare la religione nel privato, divenendo così sostenitori del laicismo.
E' palese che un sistema democratico maturo deve consentire il libero ed argomentato confronto di diverse visioni della vita e del mondo, pena il tradimento dei presupposti di tolleranza e libertà di espressione che garantisce. Le visioni del mondo che ispirano anche i progetti politici possono derivare da concezioni religiose.
E' innegabile che alcuni valori di fondo della tradizione giudaico-cristiana abbiano contraddistinto ed influenzato la cultura europea: pensiamo, fra gli altri, al diritto alla vita, alla dignità della persona ed alla solidarietà nei confronti dei più deboli.
Posizione del Veneto Serenissimo Governo
Il Veneto Serenissimo Governo ritiene che sia necessario fondare il proprio progetto e la propria azione su quei grandi valori legati alla religione giuidaico-cristiana, espressi anche nella seconda parte delle «tavole della Legge» e noti come «comandamenti di tipo sociale». Risponde a questa scelta, oltre la solidità di tali insegnamenti, anche la costante determinazione di collocarsi nella storia e cultura europee nonché marciane. Il Veneto Serenissimo Governo conferma che soltanto su quella base è possibile garantire un futuro per le genti venete, ma pure per ogni popolo che aspiri ad essere veramente libero.

 

IL DECALOGO

 

 Le leggi che presiederanno ai rapporti sociali  e all'ordinamento giuridico della Veneta Serenissima Repubblica sono: onora il padre e la madre - non uccidere - non commettere atti impuri - non rubare - non dire falsa testimonianza - non desiderare la donna d'altri - non desiderare la roba d'altri. (da PERONI L, Appello al Popolo Veneto per la liberazione della Veneta Patria, tesi n.11 2006, p. 9.)
Il decalogo biblico, sicuramente uno dei passi più noti di tutta la Scrittura giudaico-cristiana, compare in due redazioni: Es 20, 1-17 e Dt 5,6-21.
Le due versioni differiscono per la motivazione circa l'osservanza del riposo sabbatico e per alcuni vocaboli. Esso, pur presentando analogie con disposizioni giuridico-morali di culture coeve, è stato formulato all'interno della fede giudaica. Pertanto la sua comprensione più autentica si ha facendo riferimento alla rivelazione biblica. Il contesto per apprezzarlo compiutamente è quello dell'alleanza o patto (berìt) tra Dio ed il suo popolo. Le dieci parole, meglio note come dieci comandamenti, vengono di solito divise in due gruppi: quelle riguardanti Dio ed il suo culto (prime tre) e le restanti sette aventi come oggetto la vita di relazione. In realtà separare i due gruppi è una forzatura; infatti, pure i comandamenti di natura «sociale» sono rivolti ad una comunità di persone credenti. Il loro oggetto è sempre la stessa fede nell'unico Dio, vissuta, però, nei rapporti interpersonali. I precetti vanno letti e vissuti sullo sfondo dell'esperienza di liberazione e libertà costituita dall'esodo dall'Egitto, essi sono un forte orientamento per consentire alle persone di continuare ad essere e vivere in libertà. L'avvento del cristianesimo ha portato a compimento il contenuto delle 10 parole. Cristo rilegge i comandamenti nella mirabile sintesi di amore di Dio e del prossimo (Mc 12,29-31 e parr.).
«Onora il padre e la madre»
La vita, data da Dio, è trasmessa dai genitori. Il verbo ebraico «kabed» contiene l'idea di peso, pertanto «onora» si può tradurre con «dà tutta l'importanza». Nell'ambito dei precetti che si riferiscono al prossimo, si potrebbe affermare che i genitori sono il primo prossimo. Di essi bisogna prendersi cura per tutta la vita.
I genitori sono in modo speciale «immagine di Dio» che è Padre (Os 11,1-4; Is 1,2; Ger 3,19) ed ha un cuore di madre (Is 49,15; Ger 31,20).
Nel mondo biblico la storia è data dal susseguirsi delle generazioni (si pensi alla lunga serie di genealogie nel libro della Genesi); la tradizione è un concetto fondamentale, alla cui base vi è la trasmissione della vita, che avviene in famiglia.
«Non uccidere»
Ancora la vita e la sua protezione sono oggetto di attenzione. Il verbo utilizzato, «ratsach», indica la morte o l'assassinio di un nemico personale, ma fuori da operazioni belliche. Si tratta, quindi, della morte inflitta illegalmente, la morte che contraddice la vita comunitaria del popolo. Tuttavia non uccidere non significa soltanto lasciar vivere, ma pure non lasciar morire quando si dispone della vita degli altri: «Sacrifica un figlio davanti al proprio padre chi offre un sacrificio con i beni dei poveri. Il pane dei bisognosi è la vita dei poveri, toglierlo a loro è commettere un assassinio. Uccide il prossimo chi toglie il nutrimento, versa sangue, chi rifiuta il salario all'operaio».
(Sir 34,20-22)
«Non commettere atti impuri»
Anche questo comandamento è ordinato alla difesa ed alla propagazione della vita. Il matrimonio implica fedeltà reciproca degli sposi; non solo perché continui ad esistere la famiglia, senza la quale i figli non sarebbero sicuri di vivere, ma perché l'unione coniugale nasce dall'amore e l'amore è sempre fedele. Il matrimonio, nella Bibbia, è sempre visto in relazione all'alleanza Dio-popolo (Os 1-2;11-14). L'infedeltà d'Israele al patto con il Signore è vista come adulterio.
«Non rubare»
Pure questo precetto concerne il tema della tutela della vita, infatti, quanto ciascuno possiede è necessità o fattore di vita. Non retribuire adeguatamente l'operaio è anche un furto, così come l'oppressione della povera gente ad opera dei potenti di turno. Il principio basilare è enunciato in Lv 25,23 dove il Signore afferma che «la terra è mia e voi siete presso di me come forestieri e inquilini». L'uomo è chiamato ad amministrarla con equità.
«Non dire falsa testimonianza»
Il verbo «anah» indica «prendere pubblicamente la parola» ma anche «rispondere davanti ad un tribunale». Tuttavia il concetto di falso testimone è vicino a quello di menzogna, che compromette la vita degli altri. Il precetto non condanna direttamente la menzogna, da un lato perché la falsa testimonianza ne è il caso più grave e, dall'altro, in quanto l'esempio concreto risulta più incisivo di una sentenza generale. E' legittimo pertanto, rilevare come oggetto di condanna sia la menzogna in generale.
«Non desiderare...»
Nella versione originale del decalogo i due comandamenti che la tradizione catechistica della Chiesa Cattolica ha diviso, sono uniti e riguardano le intenzioni profonde del soggetto e non singoli atti come gli altri. Il significato si coglie ricordando che, nella redazione del decalogo presente nel libro del Deuteronomio (Dt 5,21) il verbo «hitawah» vuol dire «desiderare» nel senso di disposizione interiore cui non necessariamente segue un atto. Quindi l'attenzione è centrata sul cuore delle persone.
E' la volontà che non deve essere schiava di istinti e passioni. Senza dimenticare che la cupidigia si alimenta anche con il contatto con gli altri: ciò che viene oggi definito come influenza dell'ambiente sul singolo. Questo precetto tutela la libertà interiore dell'uomo. Perché questa scelta?
Porre come fondamento delle future leggi della Veneta Serenissima Repubblica la seconda parte delle «dieci parole», comporta inequivocabilmente schierarsi dalla parte della vita e della libertà.

 

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