VILLA DEI VESCOVI
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Zanon, e FAI xe el fogo se magna Venexia?
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«Palazzo Chigi con la bellezza di 13 «aerei blu» - più quelli a noleggio -
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e Venexia?
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Venezia con un solo vecchio e malandato elicottero per spegnere gli incendi»
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La Presidente del FAI: «Prodi dimentica l'ambiente. Promettono ma non mantengono»
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el Liòn Patrono di Venezia e le vicende delle sue reliquie
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Commento di un Veneto
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Che bel se'l se li magnassi tuti quei fioi de can... un baxeto... Sandro
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Roma, 24 Maggio 2007
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Professor Zanon, e fai xe el fogo se magna Venexia? Poi come la
mettiamo? Questa la mia risposta alla nota «Il degrado
a Venezia» diramata dal Professor Luigi Gigio Zanon
- strenuo ed infaticabile cittadino a difesa della sua città
- inviata alle Giunte del Comune di Venezia e della Regione Veneto,
al Capo del Governo, al sottosegretario alla Presidenza del Consiglio
dei ministri ed al ministro dell'Interno, alla Segreteria particolare
del ministro per gli Affari Regionali, a membri del FAI, alla
Stampa locale, a cittadini veneti - e non veneti - ai 73.000 destinatari
che ricevono la mia Newsletter, a Stampa nazionale ed Agenzie di stampa,
a siti internet, Google, Yahoo ed altri motori di ricerca e lettori
della mia rubrica on line con l'invito a sostenere questa ennesima battaglia
del Professor Zanon a favore della sua amatissima Venexia,
patrimonio del mondo, perchè venga dotata dei mezzi idonei contro
gli incendi che hanno già mietuto troppe vittime e devastato
il Teatro alla Fenice, il Mulino Stucky, Palazzo Coin a Rialto, la Casa
d'accoglienza per disabili mentali a San Marco, la chiesa di San Geremia,
un palazzo a Campo della Guerra, la Sinagoga, Palazzo Volpi a San Beneto
ed altre realtà monumentali e storiche. Qualche giorno dopo
Gian Antonio Stella, coautore con Sergio Rizzo de «La casta»
- una precisa ed impietosa analisi degli scandalosi costi della politica
e dei politici - scriveva nell'articolo intitolato «Venezia,
contro il fuoco un solo elicottero e tanti serenissimi Santi»
Tema: è giusto che palazzo Chigi abbia la bellezza di
13 «aerei blu» (più
quelli a noleggio) che hanno volato complessivamente nel 2005 per 37
ore al giorno costando ben 65 milioni di euro mentre non si trovano
i soldi per un secondo elicottero che limiti i rischi nella più
bella delle città a rischio? Per non dire dei vigili del fuoco
che sugli elicotteri si giocano la pelle per spegnere gli incendi. Per
avventurarsi in imprese come quei 23 giri notturni sulla Fenice, (in
fiamme (ndr) un pilota con oltre 25 anni di servizio pagato 1.380 euro
al mese (1380!) ha un'indennità di volo di 560 euro: 18 euro
e 66 centesimi al giorno. Hanno chiesto il minimo «gli angeli
del fuoco»: lo stesso trattamento degli elicotteristi della
Polizia, che dipendono dallo stesso ministero degli Interni ma che guadagnano
molto di più». «Il sottosegretario
Ettore Rosato, - conclude Stella - allargando le braccia, ha
risposto di no: la cosa costerebbe 4 milioni di euro. Troppi, per uno
Stato che porta le Loro Eccellenze anche alle feste private in giro
per l'Europa o in pellegrinaggio al monte Athos ma poi deve anche risparmiare».
Ma che faccia 'e cuorno stu' sottosegretario però! Su
quanto accade all'ambiente naturale ed umano di Venezia senza che nessuno
se ne curi da anni ed anni, l'articolo di Stella va letto per intero
augurandosi che, finalmente, le istituzioni nazionali, regionali e locali
provvedano a porre fine a questo stato di cose da terzo mondo. Ripeto,
per capire in quale grado di abbandono è sprofondata Venezia,
l'articolo di Stella va letto dalla prima parola fino all'ultima. Chi
non l'ha letto lo chieda scrivendo Gstella#rcs.it
perchè questo che riporto è solo un piccolo esempio delle
drammatiche realtà descritte da un veneto qual'è Gian
Antonio Stella e dei faraonici sperperi a cui si abbandonano ed in cui
sguazzano le nostre istituzioni e il nostro Stato, veri satrapi attuali. «Il
Premier? Per ora non ha dimostrato particolare attenzione ai temi della
difesa ambientale, Prodi dimentica l'ambiente. Promettono ma non mantengono»
ha dichiarato Giulia Maria Mozzoni Crespi - dal 1975 fondatrice e presidente
del Fai Fondo per l'Ambiente Italiano - al quotidiano La Stampa nel
corso della conferenza stampa svoltasi il 2 marzo scorso a Luvigliano
di Torreglia nel brolo della Villa dei Vescovi
la dimora rinascimentale dei Vescovi di Padova immersa nei Colli Euganei
acquistata nel 1962 da Vittorio Olcese e da me in comproprietà
pro indiviso - realtà storica e catastale, questa, di cui istituzioni
ed altre entità, diciamo «misogine», omettono di
menzionare. Comproprietà che sin da allora ci impegnammo l'un
l'altra a che ne avremmo fatto dono allo Stato o ad una Fondazione perchè
durasse nei secoli futuri. Buon lavoro, a tutti, dunque.
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el Liòn Patrono di Venezia e le vicende delle sue reliquie
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LA VENETA SERENISSIMA REPUBBLICA E LA LAICITA' DELLO STATO
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a cura di Andrea Bonesso
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San Marco Evangelista
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25 aprile sec. I
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Ebreo di origine, nacque probabilmente fuori della Palestina, da
famiglia benestante. San Pietro, che lo chiama «figlio mio»,
lo ebbe certamente con sé nei viaggi missionari in Oriente e
a Roma, dove avrebbe scritto il Vangelo. Oltre alla familiarità
con san Pietro, Marco può vantare una lunga comunità di
vita con l'apostolo Paolo, che incontrò nel 44, quando Paolo
e Barnaba portarono a Gerusalemme la colletta della comunità
di Antiochia. Al ritorno, Barnaba portò con sé il giovane
nipote Marco, che più tardi si troverà al fianco di san
Paolo a Roma. Nel 66 san Paolo ci dà l'ultima informazione su
Marco, scrivendo dalla prigione romana a Timoteo: «Porta con
te Marco. Posso bene aver bisogno dei suoi servizi». L'evangelista
probabilmente morì nel 68, di morte naturale, secondo una relazione,
o secondo un'altra come martire, ad Alessandria d'Egitto. Gli Atti di
Marco (IV secolo) riferiscono che il 24 aprile venne trascinato dai
pagani per le vie di Alessandria legato con funi al collo. Gettato in
carcere, il giorno dopo subì lo stesso atroce tormento e soccombette.
Il suo corpo, dato alle fiamme, venne sottratto alla distruzione dai
fedeli. Secondo una leggenda due mercanti veneziani avrebbero portato
il corpo nell'828 nella città della Venezia. (Avvenire)
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Patronato: Segretarie Etimologia: Marco nato in marzo, sacro
a Marte, dal latino Emblema: Leone
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La figura dell'evangelista Marco, è conosciuta soltanto da
quanto riferiscono gli Atti degli Apostoli e alcune lettere di s. Pietro
e s. Paolo; non fu certamente un discepolo del Signore e probabilmente
non lo conobbe neppure, anche se qualche studioso lo identifica con
il ragazzo, che secondo il Vangelo di Marco, seguì Gesù
dopo l'arresto nell'orto del Getsemani, avvolto in un lenzuolo; i soldati
cercarono di afferrarlo ed egli sfuggì nudo, lasciando il lenzuolo
nelle loro mani. Quel ragazzo era Marco, figlio della vedova benestante
Maria, che metteva a disposizione del Maestro la sua casa in Gerusalemme
e l'annesso orto degli ulivi. Nella grande sala della loro casa,
fu consumata l'Ultima Cena e lì si radunavano gli apostoli dopo
la Passione e fino alla Pentecoste. Quello che è certo è
che fu uno dei primi battezzati da Pietro, che frequentava assiduamente
la sua casa e infatti Pietro lo chiamava in senso spirituale «mio
figlio»
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Discepolo degli Apostoli e martirio
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Nel 44 quando Paolo e Barnaba, parente del giovane, ritornarono a
Gerusalemme da Antiochia, dove erano stati mandati dagli Apostoli, furono
ospiti in quella casa; Marco il cui vero nome era Giovanni usato per
i suoi connazionali ebrei, mentre il nome Marco lo era per presentarsi
nel mondo greco-romano, ascoltava i racconti di Paolo e Barnaba sulla
diffusione del Vangelo ad Antiochia e quando questi vollero ritornarci,
li accompagnò. Fu con loro nel primo viaggio apostolico fino
a Cipro, ma quando questi decisero di raggiungere Antiochia, attraverso
una regione inospitale e paludosa sulle montagne del Tauro, Giovanni
Marco rinunciò spaventato dalle difficoltà e se ne tornò
a Gerusalemme. Cinque anni dopo, nel 49, Paolo e Barnaba ritornarono
a Gerusalemme per difendere i Gentili convertiti, ai quali i giudei
cristiani volevano imporre la legge mosaica, per poter ricevere il battesimo. Ancora
ospitati dalla vedova Maria, rividero Marco, che desideroso di rifarsi
della figuraccia, volle seguirli di nuovo ad Antiochia, quando i due
prepararono un nuovo viaggio apostolico, Paolo non fidandosi, non lo
volle con sé e scelse un altro discepolo, Sila e si recò
in Asia Minore, mentre Barnaba si spostò a Cipro con Marco. In
seguito il giovane deve aver conquistato la fiducia degli apostoli,
perché nel 60, nella sua prima lettera da Roma, Pietro salutando
i cristiani dell'Asia Minore, invia anche i saluti di Marco, egli divenne
anche fedele collaboratore di Paolo e non esitò a seguirlo a
Roma, dove nel 61 risulta che Paolo era prigioniero in attesa di giudizio,
l'apostolo parlò di lui, inviando i suoi saluti e quelli di «Marco,
il nipote di Barnaba» ai Colossesi, e a Timoteo chiese nella sua
seconda lettera da Roma, di raggiungerlo portando con sé Marco
«perché mi sarà utile per il ministero». Forse
Marco giunse in tempo per assistere al martirio di Paolo, ma certamente
rimase nella capitale dei Cesari, al servizio di Pietro, anch'egli presente
a Roma. Durante gli anni trascorsi accanto al Principe degli Apostoli,
Marco trascrisse, secondo la tradizione, la narrazione evangelica di
Pietro, senza elaborarla o adattarla a uno schema personale, cosicché
il suo Vangelo ha la scioltezza, la vivacità e anche la rudezza
di un racconto popolare. Affermatosi solidamente la comunità
cristiana di Roma, Pietro inviò in un primo momento il suo discepolo
e segretario, ad evangelizzare l'Italia settentrionale, ad Aquileia
Marco convertì Ermagora, diventato poi primo vescovo della città
e dopo averlo lasciato, s'imbarcò e fu sorpreso da una tempesta,
approdando sulle isole Rialtine (primo nucleo della futura Venezia),
dove si addormentò e sognò un angelo che lo salutò:
«Pax tibi Marce evangelista meus» e gli promise che in quelle
isole avrebbe dormito in attesa dell'ultimo giorno. Secondo un'antichissima
tradizione, Pietro lo mandò poi ad evangelizzare Alessandria
d'Egitto, qui Marco fondò la Chiesa locale diventandone il primo
vescovo. Nella zona di Alessandria subì il martirio, sotto
l'imperatore Traiano (53-117); fu torturato, legato con funi e trascinato
per le vie del villaggio di Bucoli, luogo pieno di rocce e asperità,
lacerato dalle pietre, il suo corpo era tutta una ferita sanguinante.
Dopo una notte di carcere, dove venne confortato da un angelo, Marco
fu trascinato di nuovo per le strade, finché morì un 25
aprile verso l'anno 72, secondo gli «Atti di Marco» all'età
di 57 anni; ebrei e pagani volevano bruciarne il corpo, ma un violento
uragano li fece disperdere, permettendo così ad alcuni cristiani,
di recuperare il corpo e seppellirlo a Bucoli in una grotta; da lì
nel V secolo fu traslato nella zona del Canopo.
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Il Vangelo
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Il Vangelo di Marco è stato il primo ad essere scritto,
probabilmente tra il 50 e il 65 d.C. Esso presenta uno stile semplice
ed utilizza un linguaggio facilmente comprensibile, con prevalenza di
strutture paratattiche, tipiche della lingua parlata del tempo. Secondo
la tradizione, Marco fu collaboratore di Pietro, di cui avrebbe riportato
per iscritto la catechesi. Lo schema dell'opera è comune a quello
degli altri due sinottici, Matteo e Luca: attività di Giovanni
il Battista, ministero di Gesù in Galilea, ministero in Giudea
e a Gerusalemme, passione morte e resurrezione.
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Le vicende delle
sue reliquie - Patrono di Venezia
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La chiesa costruita al Canopo di Alessandria, che custodiva le sue
reliquie, fu incendiata nel 644 dagli arabi e ricostruita in seguito
dai patriarchi di Alessandria, Agatone (662-680), e Giovanni di Samanhud
(680-689). E in questo luogo nell'828, approdarono i due mercanti veneziani
Buono da Malamocco e Rustico da Torcello, che s'impadronirono delle
reliquie dell'Evangelista minacciate dagli arabi, trasferendole a Venezia,
dove giunsero il 31 gennaio 828, superando il controllo degli arabi,
una tempesta e l'arenarsi su una secca. Le reliquie furono accolte con
grande onore dal doge Giustiniano Partecipazio, figlio e successore
del primo doge delle Isole di Rialto, Agnello, e riposte provvisoriamente
in una piccola cappella, luogo oggi identificato dove si trova il tesoro
di San Marco. Iniziò la costruzione di una basilica, che fu portata
a termine nell'832 dal fratello Giovanni suo successore, Dante nel suo
memorabile poema scrisse. «Cielo e mare vi posero mano»,
ed effettivamente la Basilica di San Marco è un prodigio di marmi
e d'oro al confine dell'arte. Ma la splendida Basilica ebbe pure i suoi
guai, essa andò distrutta una prima volta da un incendio nel
976, provocato dal popolo in rivolta contro il doge Candiano IV (959-976)
che lì si era rifugiato insieme al figlio, in quell'occasione
fu distrutto anche il vicino Palazzo Ducale. Nel 976-978, il doge
Pietro Orseolo I il Santo, ristrutturò a sue spese sia il Palazzo
che la Basilica, l'attuale 'Terza San Marco' fu iniziata invece nel
1063, per volontà del doge Domenico I Contarini e completata
nei mosaici e marmi dal doge suo successore, Domenico Selvo (1071-1084).
La Basilica fu consacrata nel 1094, quando era doge Vitale Falier; ma
già nel 1071 s. Marco fu scelto come titolare della Basilica
e Patrono principale della Serenissima, al posto di s. Teodoro, che
fino all'XI secolo era il patrono e l'unico santo militare venerato
dappertutto. Le due colonne monolitiche poste tra il molo e la piazzetta,
portano sulla sommità rispettivamente l'alato Leone di S. Marco
e il santo guerriero Teodoro, che uccide un drago simile ad un coccodrillo. La
cerimonia della dedicazione e consacrazione della Basilica, avvenuta
il 25 aprile 1094, fu preceduta da un triduo di penitenza, digiuno e
preghiere, per ottenere il ritrovamento delle reliquie dell'Evangelista,
delle quali non si conosceva più l'ubicazione. Dopo la Messa
celebrata dal vescovo, si spezzò il marmo di rivestimento di
un pilastro della navata destra, a lato dell'ambone e comparve la cassetta
contenente le reliquie, mentre un profumo dolcissimo si spargeva per
la Basilica. Venezia restò indissolubilmente legata al suo
Santo patrono, il cui simbolo di evangelista, il leone alato che artiglia
un libro con la già citata scritta: «Pax tibi Marce evangelista
meus», divenne lo stemma della Serenissima, che per secoli fu
posto in ogni angolo della città ed elevato in ogni luogo dove
portò il suo dominio. San Marco è patrono dei notai, degli
scrivani, dei vetrai, dei pittori su vetro, degli ottici, la sua festa
è il 25 aprile, data che ha fatto fiorire una quantità
di detti e proverbi.
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IL CONCETTO DI LAICITA'
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La nascita e lo sviluppo del termine «laico». Il
termine «laico», insieme ai vocaboli collegati, ha alle
spalle una storia ricca nonché curiosa. Nei primi secoli del
cristianesimo indicava il battezzato che apparteneva alla Chiesa. I
cristiani, infatti, si definivano «il popolo di Dio» (o
laòs tou Theou, in greco, la parola «laòs»
significa appunto popolo). In seguito, con il progressivo differenziarsi
dei ruoli nella Chiesa, acquistano sempre maggiore importanza i battezzati
insigniti anche del sacramento dell'ordine sacro. Lentamente si forma
una gerarchia, denominata «clero». Nel periodo medievale
tutto il potere e la cultura sono saldamente nelle mani del clero, proprio
in questa fase la parola «laico» comincia ad essere sinonimo
di illetterato, popolano dai costumi poco raffinati. Con la società
ormai tutta cristiana, si arriva ad affermare che «duo sunt genera
christianorum: clerici et idiotes» (decretum Gratiani, 1140).
Quest'ultimo appellativo è utilizzato per indicare i cristiani
laici, cioè i semplici battezzati che vivono la loro fede nelle
ordinarie condizioni di vita. La riforma luterana (XVI sec.) ha avuto
il merito di rivalutare, dal punto di vista teologico ed ecclesiale,
il cosiddetto «sacerdozio comune dei fedeli», liberando
il laico cristiano dall'essere un semplice esecutore delle direttive
della gerarchia ecclesiastica e rivalutando gli impegni conseguenti
al battesimo. In questo modo inizia una rinnovata, almeno nelle Chiese
della riforma, presenza laicale ed il termine viene liberato dall'accezione
negativa che aveva assunto. Una novità radicale: la rivoluzione
francese. Gli eventi del 1789, preparati dal pensiero liberale
ed illuminista, segnano una svolta nella comprensione di chi sia «laico».
Il termine, nato nel cristianesimo, per una strana eterogenesi dei fini
assume un significato di opposizione a questa fede e finisce per indicare,
in modo da opporsi al clero legato all'ancien regime da abbattere, chi
non si riconosce nelle Chiese cristiane. Nel corso del XIX sec., poi,
si riveste di significati chiaramente anticristiani, antiecclesiali
ed anticlericali. Con la nascita degli stati nazionali, l'espressione
«stato laico», in Europa, indica un sistema statale neutrale
e perfino indifferente nei confronti del cristianesimo. Portando
alle estreme conseguenze la riflessione illuminista, si può affermare
che la religione, depurata dai suoi aspetti dogmatici e soprannaturali,
viene relegata nell'ambito della sfera privata della vita della persona
e serve soltanto come orientamento nelle scelte del singolo in materia
morale. Questo approccio è chiaramente presente nell'opera
di I. Kant. «La religione nei limiti della ragione» Se
quelle esposte sono le caratteristiche dell'illuminismo francese diffusosi
anche in Spagna e nella penisola italiana, ben diverso è l'illuminismo
di stampo anglosassone e, segnatamente, americano. In questo contesto
la religione (il cristianesimo) continua ad avere un ruolo pubblico,
nei termini di «religione civile». Essa, più che
esperienza di fede, diventa fondamento di valori condivisi. Emblematico,
in questo senso, è quanto riportato sulle banconote americane:
«In God we trust», «ci uniamo in Dio». La situazione
attuale. Il panorama odierno vede la compresenza di interpretazioni
diverse del concetto di laicità. Non vi è dubbio alcuno
sul fatto che la distinzione tra religione e società o religione
e stato sia da ascrivere al celebre detto di Cristo «Rendete a
Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio»
(Mc. 12,17 e parr.). Pertanto è il cristianesimo che ha
desacralizzato l'autorità politica e ne ridimensionato funzioni
e potere. Già nella cultura ebraica prima di Cristo, tuttavia,
il sovrano non era un despota assoluto o l'emanazione degli dei immortali,
ma doveva ispirarsi, nel suo agire, alla legge divina (i cosiddetti
dieci comandamenti). Pertanto, si può concludere che è
proprio della religione giudaico-cristiana distinguere fede e politica
nonché limitare l'invadenza delle strutture statuali. Un
regime totalitario è incompatibile con la fede giudaico-cristiana. La
condizione di laicità è, quindi, il riconoscimento della
distinzione dei piani religioso e socio-politico nonché della
loro autonomia, cioè del fatto che hanno leggi e finalità
proprie. Si è parlato di «distinzione» e non «separazione».
Questo significa che ogni legge dello stato, per l'ebreo e il cristiano,
deve essere sottoposta al vaglio della propria coscienza credente. Ma
vuol dire pure che il credente può tranquillamente rendere pubbliche
le convinzioni personali derivanti dalla fede che abbraccia. Questa
possibilità è negata dai neoilluministi europei che vorrebbero
ricacciare la religione nel privato, divenendo così sostenitori
del laicismo. E' palese che un sistema democratico maturo deve consentire
il libero ed argomentato confronto di diverse visioni della vita e del
mondo, pena il tradimento dei presupposti di tolleranza e libertà
di espressione che garantisce. Le visioni del mondo che ispirano anche
i progetti politici possono derivare da concezioni religiose. E'
innegabile che alcuni valori di fondo della tradizione giudaico-cristiana
abbiano contraddistinto ed influenzato la cultura europea: pensiamo,
fra gli altri, al diritto alla vita, alla dignità della persona
ed alla solidarietà nei confronti dei più deboli. Posizione
del Veneto Serenissimo Governo Il Veneto Serenissimo Governo
ritiene che sia necessario fondare il proprio progetto e la propria
azione su quei grandi valori legati alla religione giuidaico-cristiana,
espressi anche nella seconda parte delle «tavole della Legge»
e noti come «comandamenti di tipo sociale». Risponde a questa
scelta, oltre la solidità di tali insegnamenti, anche la costante
determinazione di collocarsi nella storia e cultura europee nonché
marciane. Il Veneto Serenissimo Governo conferma che soltanto su quella
base è possibile garantire un futuro per le genti venete, ma
pure per ogni popolo che aspiri ad essere veramente libero.
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IL DECALOGO
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Le leggi che presiederanno ai rapporti sociali e all'ordinamento
giuridico della Veneta Serenissima Repubblica sono: onora il padre e
la madre - non uccidere - non commettere atti impuri - non rubare -
non dire falsa testimonianza - non desiderare la donna d'altri - non
desiderare la roba d'altri. (da PERONI L, Appello al Popolo Veneto per
la liberazione della Veneta Patria, tesi n.11 2006, p. 9.) Il decalogo
biblico, sicuramente uno dei passi più noti di tutta la Scrittura
giudaico-cristiana, compare in due redazioni: Es 20, 1-17 e Dt 5,6-21. Le
due versioni differiscono per la motivazione circa l'osservanza del
riposo sabbatico e per alcuni vocaboli. Esso, pur presentando analogie
con disposizioni giuridico-morali di culture coeve, è stato formulato
all'interno della fede giudaica. Pertanto la sua comprensione più
autentica si ha facendo riferimento alla rivelazione biblica. Il contesto
per apprezzarlo compiutamente è quello dell'alleanza o patto
(berìt) tra Dio ed il suo popolo. Le dieci parole, meglio note
come dieci comandamenti, vengono di solito divise in due gruppi: quelle
riguardanti Dio ed il suo culto (prime tre) e le restanti sette aventi
come oggetto la vita di relazione. In realtà separare i due gruppi
è una forzatura; infatti, pure i comandamenti di natura «sociale»
sono rivolti ad una comunità di persone credenti. Il loro oggetto
è sempre la stessa fede nell'unico Dio, vissuta, però,
nei rapporti interpersonali. I precetti vanno letti e vissuti sullo
sfondo dell'esperienza di liberazione e libertà costituita dall'esodo
dall'Egitto, essi sono un forte orientamento per consentire alle persone
di continuare ad essere e vivere in libertà. L'avvento del cristianesimo
ha portato a compimento il contenuto delle 10 parole. Cristo rilegge
i comandamenti nella mirabile sintesi di amore di Dio e del prossimo
(Mc 12,29-31 e parr.). «Onora il padre e la madre» La
vita, data da Dio, è trasmessa dai genitori. Il verbo ebraico
«kabed» contiene l'idea di peso, pertanto «onora»
si può tradurre con «dà tutta l'importanza».
Nell'ambito dei precetti che si riferiscono al prossimo, si potrebbe
affermare che i genitori sono il primo prossimo. Di essi bisogna prendersi
cura per tutta la vita. I genitori sono in modo speciale «immagine
di Dio» che è Padre (Os 11,1-4; Is 1,2; Ger 3,19) ed ha
un cuore di madre (Is 49,15; Ger 31,20). Nel mondo biblico la storia
è data dal susseguirsi delle generazioni (si pensi alla lunga
serie di genealogie nel libro della Genesi); la tradizione è
un concetto fondamentale, alla cui base vi è la trasmissione
della vita, che avviene in famiglia. «Non uccidere» Ancora
la vita e la sua protezione sono oggetto di attenzione. Il verbo utilizzato,
«ratsach», indica la morte o l'assassinio di un nemico personale,
ma fuori da operazioni belliche. Si tratta, quindi, della morte inflitta
illegalmente, la morte che contraddice la vita comunitaria del popolo.
Tuttavia non uccidere non significa soltanto lasciar vivere, ma pure
non lasciar morire quando si dispone della vita degli altri: «Sacrifica
un figlio davanti al proprio padre chi offre un sacrificio con i beni
dei poveri. Il pane dei bisognosi è la vita dei poveri, toglierlo
a loro è commettere un assassinio. Uccide il prossimo chi toglie
il nutrimento, versa sangue, chi rifiuta il salario all'operaio». (Sir
34,20-22) «Non commettere atti impuri» Anche
questo comandamento è ordinato alla difesa ed alla propagazione
della vita. Il matrimonio implica fedeltà reciproca degli sposi;
non solo perché continui ad esistere la famiglia, senza la quale
i figli non sarebbero sicuri di vivere, ma perché l'unione coniugale
nasce dall'amore e l'amore è sempre fedele. Il matrimonio, nella
Bibbia, è sempre visto in relazione all'alleanza Dio-popolo (Os
1-2;11-14). L'infedeltà d'Israele al patto con il Signore è
vista come adulterio. «Non rubare» Pure questo
precetto concerne il tema della tutela della vita, infatti, quanto ciascuno
possiede è necessità o fattore di vita. Non retribuire
adeguatamente l'operaio è anche un furto, così come l'oppressione
della povera gente ad opera dei potenti di turno. Il principio basilare
è enunciato in Lv 25,23 dove il Signore afferma che «la
terra è mia e voi siete presso di me come forestieri e inquilini».
L'uomo è chiamato ad amministrarla con equità. «Non
dire falsa testimonianza» Il verbo «anah» indica
«prendere pubblicamente la parola» ma anche «rispondere
davanti ad un tribunale». Tuttavia il concetto di falso testimone
è vicino a quello di menzogna, che compromette la vita degli
altri. Il precetto non condanna direttamente la menzogna, da un lato
perché la falsa testimonianza ne è il caso più
grave e, dall'altro, in quanto l'esempio concreto risulta più
incisivo di una sentenza generale. E' legittimo pertanto, rilevare come
oggetto di condanna sia la menzogna in generale. «Non desiderare...» Nella
versione originale del decalogo i due comandamenti che la tradizione
catechistica della Chiesa Cattolica ha diviso, sono uniti e riguardano
le intenzioni profonde del soggetto e non singoli atti come gli altri.
Il significato si coglie ricordando che, nella redazione del decalogo
presente nel libro del Deuteronomio (Dt 5,21) il verbo «hitawah»
vuol dire «desiderare» nel senso di disposizione interiore
cui non necessariamente segue un atto. Quindi l'attenzione è
centrata sul cuore delle persone. E' la volontà che non deve
essere schiava di istinti e passioni. Senza dimenticare che la cupidigia
si alimenta anche con il contatto con gli altri: ciò che viene
oggi definito come influenza dell'ambiente sul singolo. Questo precetto
tutela la libertà interiore dell'uomo. Perché questa scelta? Porre
come fondamento delle future leggi della Veneta Serenissima Repubblica
la seconda parte delle «dieci parole», comporta inequivocabilmente
schierarsi dalla parte della vita e della libertà.
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