VILLA DEI VESCOVI

La Battaglia di Lepanto

di Gigio Zanon


LA BATTAGLIA DI LEPANTO 7 OTTOBRE 1571
I PROTAGONISTI PRINCIPALI
Tutte le cronache di tutti i tempi sono quasi concordi a celebrare questa grande battaglia come quella della cristianità sui turchi, ma è molto più giusto chiamarla come la battaglia della cristianità contro l’islamismo.
I Turchi Selgucidi, infatti, arrivano dal lontano oriente e conquistano tutto il medio oriente a cavallo del secoli XII - XIV e da quei popoli vengono convertiti alla religione Islamica, della quale divengono i grandi propugnatori e integralisti. Tutte le loro conquiste successive vengono fatte in nome di quella religione, per cui essa diventa sinonimo di turco.
Nel XVI secolo per “turco” si intendevano tutti i paesi di lingua arabo - islamica: dall’estremo ovest di Gibilterra all’estremo est della penisola Araba, dal sud dell’Africa al nord della Bulgaria: tutte le terre da loro conquistate. I Turchi portarono le loro usanze e dagli Arabi ne copiarono le loro: fino ad integrarsi reciprocamente.
 Pertanto non si ritiene corretto parlare di battaglia fra turchi e cristiani, ma bensì di popoli cristiano contro popoli islamici, o musulmani.
PIO V.
Michele Ghisleri, nato a Bosco Marengo il 17 gennaio del 1504 in provincia di Alessandria, viene eletto Papa il 7 gennaio 1566. Frate dei Domenicani predicatori, viene nominato Inquisitore a Como e Pavia: giusto ai confini con la Svizzera protestante. Viene nominato Cardinale da Paolo IV nel 1557, quindi Grande Inquisitore a Roma.
E’ riconosciuto come un Papa fermo ed intrasigente permeato da rigorismo cattolico. All’apparenza sembra un Papa religioso e dapprima pone al bando ogni impegno militare e politico, egli soleva dire che la Chiesa non aveva bisogno di cannoni e soldati, e che le sue armi dovevano essere la preghiera, il digiuno e la Sacra Scrittura. Mise al bando dalla città di Roma tutte le cortigiane, abolì il carnevale, impose l’osservanza stretta del matrimonio e fustigazione per gli adulteri.
I suoi oppositori sostennero che aveva fatto di Roma un convento.
Sarà, in seguito, canonizzato da Clemente XI nel maggio del 1712, ma secondo altri - soprattutto secondo le parole del Giovanoli - merita “di essere relegato fra Tamerlano e Domenico di Guzman (fondatore dei Domenicani), nel luogo spettante a ad uno dei più frenetici e sanguinari mostri che abbiano disonorato la razza umana”. Infatti con lui la Santa Inquisizione imperversò ed insanguinò mezza Europa. In una sua lettera a Filippo II contro gli eretici, gli impone di “non riconciliarsi mai: non mai pietà, sterminate chi si sottomette e sterminate chi resiste, perseguitate ad oltranza, uccidete, ardete, tutto vada a fuoco e sangue purchè sia vendicato il Signore, molto più che nemici suoi, sono nemici vostri”.
Inviò truppe a sostegno dei Cattolici Francesi, e al conte di Santa Fiora, impartì l’ordine “di non prendere prigionieri nessun ugonotto e di uccidere subito chiunque gli capitasse tra le mani”.
Secondo il Giovagnoli, “s’inebriò delle stragi di Cahors, di Tours, di Amiens, di Tolosa e al duca d’Alba mandò in dono il cappello e la spada benedetti. Fece perseguitare in tutti i modi i protestanti nei paesi cattolici, e fu da quelle sue indicazioni se in Inghilterra la persecuzione fece i suoi più orrendi misfatti: la scomunica contro Maria Stuarda non avrebbe avuto altro che un persecuzione ancora più violenta: sangue chiama sangue, odio genera odio. E le sue conseguenze le vediamo ancor oggi. Fu più la sua imposizione, che la sua diplomazia, ad unire Veneziani e Spagnoli nella battaglia di Lepanto: fornì navi e denaro, offrì diverse navi alla Lega Santa da lui indetta contro l’Islam e contro i Turchi che ormai stavano invadendo l’Europa, grazie alle continue discordie fra stati.
Fu, infatti, il 7 marzo del 1571 - giorno in cui si festeggia la ricorrenza di San Tommaso d’Aquino, il Domenicano “Dottor Angelico” - che indisse in Roma, nel convento di Santa Maria sopra Minerva - la prima conferenza della LEGA SANTA.
A ricordo di questo evento, fissò la festa di “Nostra Signora della Vittoria” al 7 ottobre, giorno della vittoriosa battaglia, che il suo successore - Gregorio XIII (quello della riforma del moderno calendario detto, appunto, Gregoriano) - avrebbe trasferito alla prima domenica di ottobre come “festa della Madonna del Rosario”.
Morì il 1° maggio del 1572, senza molti rimpianti. Gli successe Gregorio XIII, ma questa è altra storia.
In Venezia venne a lui dedicato un’altare nella terza cappella a sinistra dell’altar maggiore della chiesa dei Domenicani dei S.S. San Giovanni e Paolo, accanto alla porta della più grande cappella dedicata alla vittoria di Lepanto, ora chiamata “Cappella del Rosario”.
MARCANTONIO COLONNA
ammiraglio italiano (Civita Lavinia 1535-Medinaceli, Spagna, 1584). Comandante della cavalleria spagnola al tempo della guerra di Siena (1553-54), durante i contrasti tra la Spagna e Paolo IV si schierò contro il papa e fu per questo spogliato di tutti i suoi averi nello Stato della Chiesa. Rientratone in possesso alla morte del pontefice (1559), da Pio V fu poi fatto principe di Paliano (1569) e capitano generale della flotta allestita contro i Turchi (1570). In tale carica, riorganizzò abilmente la flotta pontificia e diede un fondamentale contributo alla vittoria di Lepanto (1571).
Invano poi si adoperò presso il papa e Venezia per far continuare la guerra contro i Turchi sino alla definitiva vittoria. Fu infine nominato da Filippo II viceré di Sicilia (1577) e governò con grande saggezza.
FILIPPO II° RE DI SPAGNA
Re di Spagna (Valladolid 1527-El Escorial 1598). Figlio dell'imperatore Carlo V, educato severamente e nel culto religioso dell'autorità e dei doveri regali, succedette al padre nel 1556, alla testa dei domini di Spagna, d'Italia, delle Fiandre e d'America (non però nell'impero), e fu per oltre 40 anni il sovrano più severo, più odiato (fuori di Spagna) e più temuto, per l'inflessibile rigore con cui compì quelli che pensava essere i suoi doveri di re cattolico e spagnolo, compreso l'appoggio all'Inquisizione che divenne strumento essenziale del suo potere. Nel 1543, signore di Milano, reggente di Spagna, aveva sposato Maria Emanuela di Portogallo che morì nel 1555 quattro giorni dopo aver dato alla luce don Carlos. Considerato dal padre strumento del proprio potere (matrimoni politici) ed erede al quale cedere con piena fiducia il grave compito che lo opprimeva, nel 1549 venne inviato nelle Fiandre per essere consacrato erede in quei domini.
Riconosciuto dagli Stati fiamminghi (1549), poté tornare nel 1551 nell'amata Spagna, dove cominciò quell'opera che fece del suo regno un tormentato modello di burocrazia la cui eco è ancora viva.
Fallito il tentativo di Carlo V di assicurargli la successione imperiale alla Dieta di Ratisbona (1550), Filippo, per l'abdicazione del padre, ricevette il Regno di Sicilia (1554), i Paesi Bassi, la Franca Contea e Charolais (1555) e infine i regni spagnoli e la Sardegna (1556), mentre l'impero passava allo zio Ferdinando.
Molti erano i problemi che Filippo ereditò con la corona: la rivalità con la Francia nel gioco delle supremazie europee, la necessità di consolidare la monarchia assoluta in Spagna, il bisogno di affermare contemporaneamente alla sovranità spagnola la religione cattolica nelle Fiandre, l'indispensabilità di garantire la sicurezza interna minacciata dalla minoranza non assimilata dei Mori, e quella nel Mediterraneo, minacciata dai Turchi, l'impegno di organizzare i possedimenti spagnoli d'oltremare (America, Asia e Oceania), ed egli cercò di risolvere ogni cosa con la metodicità di un contabile.
Il matrimonio con Maria I Tudor la Sanguinaria (1554, celebrato per volontà di Carlo V) fu il tentativo di isolare la Francia. Ma Filippo, che, pur detestandola, aveva conquistato l'amore di Maria, non fu gradito agli Inglesi, che lo respinsero come re, lasciandogli la parte di regale ma impotente consorte. Egli quindi trascurò i rapporti con l'Inghilterra che andarono poi peggiorando con la morte di Maria (1558) e la proclamazione della nuova regina Elisabetta.
Intanto l'incorporazione dei Paesi Bassi nel Regno di Spagna, togliendoli alla sfera di azione dell'impero, consentiva loro di passare, nell'assurdità di quell'unione, a una opposizione sempre più accanita che avrebbe tormentato la Spagna per oltre due secoli e che si sarebbe conclusa con l'inevitabile progressivo affrancamento.
La continuazione della politica di supremazia nei riguardi della Francia lo portò a rompere la tregua di Vaucelles e a ricominciare la guerra con Enrico II appoggiato da Paolo IV.
Ma la vittoria di San Quintino (1557) e la successiva Pace di Cateau-Cambrésis (1559) non gli recarono alcun vantaggio, se non il matrimonio con Elisabetta di Valois (chiamata Elisabetta della Pace), figlia di Enrico II, la donna che Filippo forse amò più di ogni altra e che diventava garanzia di tregua in una lotta che aveva stremato il Paese. La fine delle ostilità in Francia consentì a Filippo di affrontare il problema del Mediterraneo.
Partecipò quindi alla Santa Lega (con Venezia, e il Papato) allestendo una grande flotta che al comando di Álvaro de Baron e di Don Giovanni d'Austria, suo fratellastro, sbaragliò a Lepanto (7 ottobre 1571) la flotta turca.
Pacificato il Mediterraneo, la lotta tornò ad accendersi nelle Fiandre. Il nuovo matrimonio con Anna d'Austria (1570), invano proposta per il figlio don Carlos, fatto nel tentativo di ottenere la neutralità dell'imperatore negli affari dei Paesi Bassi, non fu sufficiente a garantirgli la tranquillità dei domini.
Il pessimo governo delle Fiandre demandato da Filippo a Margherita d'Austria suscitò una guerra interminabile, in cui il re intervenne con mezzi crudeli e inutili come il “Tribunale del Sangue” e l'assassinio di Guglielmo d'Orange, che non impedirono alle province del Nord di respingere la sovranità spagnola e di proclamarsi indipendenti (1581).
Nel frattempo Filippo aveva preso possesso del Portogallo (1580) per diritto di successione alla morte di Sebastiano di Portogallo, e la minaccia inglese, specie ai commerci, si era andata acuendo per la politica della nuova regina, Elisabetta, che incitava alla guerra di corsa contro navi e possedimenti spagnoli.
Il fallimento dell'Invincibile Armata allestita per distruggere la potenza inglese e annientata dalla tempesta e dalla tattica inglese (1588), fece svanire il sogno di Filippo di conquistare l'Inghilterra (vantando un assurdo diritto di successione al trono), e di riconquistare le province perdute dei Paesi Bassi.
Inseritosi, in appoggio ai Guisa e al partito cattolico, nelle lotte politiche e religiose che travagliarono la Francia dopo la morte di Enrico II (1559) e di Enrico III (1589), Filippo tentò invano di ottenere il trono per la figlia Isabella Clara Eugenia, nipote di Enrico II; la conversione al cattolicesimo del pretendente Enrico il Bearnese, re di Navarra, pose fine alle sue ambizioni. Quando Filippo firmò la Pace di Vervins (1598) e si ritirò all'Escorial, dopo aver lasciato il regno a Filippo III e parte dei possedimenti a Isabella, la Spagna era sull'orlo della bancarotta, paralizzata in ogni settore, persino nella cultura, oppressa e imbavagliata dai suoi rigidi controlli.
ALVISE I MOCENIGO DOGE DI VENEZIA
Dato il tempo di guerra in cui furono sospese le votazioni delle Magistrature scadute del loro tempo, e sospesa altresì l’elezione dei Correttori alla Promissione Ducale, il 9 maggio del 1570 veniva eletto Doge di Venezia Alvise I Mocenigo. Narra di lui il Romanin: ”…d’illustre famiglia, assai benemerito della Repubblica, di molte aderenze, di chiare virtù personali ed esercitato nelle faccende interne ed esterne come alla gravità del momento si richiedeva”.
SEBASTIANO VENIER
Secondogenito di due maschi, nacque da Mosè e da Elena Donà l'11 giugno 1496. Era di fisico sano e robusto, aveva ingegno pronto, varia e vasta cultura e la parola facile ed efficace, ma indole furiosa e violenta che dimostrò fin da ragazzo mischiandosi in furiose risse tra ragazzi, dando e ricevendo busse e ferite.
E tale cattivo carattere, che dimostrò durante tutta la sua vita, fu certo un grande coefficiente nelle ben note discussioni che ebbe con don Giovanni d’Austria prima di Lepanto. E’ interessante un battibecco che ebbe il 13 settembre 1571, pochi giorni prima della battaglia navale, con Niccolò Donà capitano delle navi, perché ce lo dipinge e ce lo rivela con grande efficacia.
Il Donà, presentandoglisi a Messina, avendogli subordinatamente fatto osservare che non poteva accettare un incarico che gli si voleva dare, per mancanza di mezzi e per altre ragioni, descrive così l’incontro avuto: “Questo con brusca cera et assai rozzamente gurdandomi in faccia (era l’eccellentia sua, di longo tempo poco bene affetta alla casa nostra per quello che successe a Cipro con il quondam mio padre, ete erra l’uno luogotenente del regno et l’altro provveditor general) mi disse obbedire se non farò quel che conviene, e darò conto al Senato della vostra disobbedientia. Risposi non esser fino a quel dì stato mai disobbediente, che haveva con riverenza rapresentato il stato mio, ma che havrei obbedito, e se non capitano delle navi patron del suo caichio. Stupirono gli astanti del proceder e mi esortorono a non passar più avanti”. Per dare idea della sua spietata severità è da notarsi che fece avvelenare e gettare in mare il Voivoda di Dragonetti, reo di aver angariato i suoi amministratori.
Viaggiò, come molti patrizi, sulla galere commerciali e fu, a dire di chi lo conosceva “eccelentissimo nel tiro con la balestra”, come in seguito lo dimostrò combattendo a Lepanto. FuAvogador de Comun e resse importanti incarichi in terraferma e in levante, e coprì le più importanti cariche civili e politiche.
Per dare unì idea della sua integrità farò presente che, in occasione del matrimonio della figlia, i deputati di Brescia gli mandarono in dono della vernaccia, del formaggio e dei salumi di cervellati di cui era molto ghiotto. Non volle accettare che qualche salume, dicendo che lo faceva per non dare occasione ai maligni di farli perdere in un giorno la considerazione che si era acquistata in molti anni.
Svolse talmente bene tutti gli incarichi avuti dalla Repubblica che, il 15 maggio 1570, fu insignito della importante carica di “Procuratore de ultra” e il 13 dicembre dello stesso anno fu eletto Capitano Generale da mar.
Era indubbio che egli godesse del più alto prestigio e che godesse di una grande fiducia che ispiravano la sua grande energia, la matura esperienza della trattazione degli affari dello Strato, l’alto senso di giustizia e la grande integrità che il Senato credette opportuno di affidargli l’importante incarico che richiedeva enormi qualità di valente soldato e marinaio.
Del discorso, che si dice abbia tenuto ai soldati prima della battaglia, è interessante questo passo, da cui risultano ancora l’integrità e dirittura del suo carattere: “et io a voi destinato capitano, ma esibitomi sempre fido compagno, vi sarò tale in qual si sii cimento, estraneo solamente nelle spoglie, né premi e nelli aplausi, ma insolubil nell’opra, nel obligo, nei rischi et nel paterno amore”.
Dimostrò anche allora un grande segno di dignità al punto che minacciò di impiccare al pennone più alto della sua galea il giovane genovese Andrea Doria che era stato mandato da don Giovanni ad ispezionare la sua nave.
Stanco per le continue discussioni con don Giovanni, scrisse al Senato di voler essere sostituito con uno “più prudente et pazienta”, ma il Senato non ne volle sapere.
In quell’anno la sua salute non era del tutto ben ferma, era sordo da un’orecchio, era travagliato da male ad una gamba ed aveva problemi di deambulazione. Infatti venne ritratto in tutti i dipinti ritto in piedi nel cassero della sua nave, con la corazza, senza elmo e con ai piedi delle pianelle; in alcuni dipinti con la spada in mano ed in altri con il gonfalone di San Marco: ma con sempre accanto due famigli che gli caricavano di continuo la balestra per poter più agevolmente colpire i nemici:
bisogna considerare anche che in quei dì aveva la bella età di 75 anni.
La sua grande integrità la dimostrò anche in seguito, dopo la battaglia, poiché come bottino si tenne solamente 205 ducati, 2 lire e 6 soldi, alcuni coltelli, un filo di coralli e due schiavi negri. Tornato a Venezia fu accolto con gli onori del trionfo.
Quando si trattò di stipulare la pace con i Musulmani cercò di opporvisi con ogni mezzo, arrivando al punto di offrire tutto il suo patrimonio e quello di suo genero per la continuazione della guerra. Fu eletto Doge di Venezia l’11 giugno del 1577, per voto unanime degli elettori.
Il Papa Gregorio XIII lo insignì del prestigioso dono della “rosa d’oro” e dello “Stocco e Pileo” quale “Defensor Ecclesiae”, ambedue posti nel tesoro di San Marco e distrutti da Napoleone
Morì il 3 marzo del 1578 e venne sepolto “provvisoriamente” nella chiesa di Santa Maria degli Angeli in Murano, e solo nel 1896, per iniziativa di Pompeo Molmenti, si trasportò la salma del nostro Eroe nella basilica dei Dogi e degli Uomini illustri della Serenissina: ai S.S. Giovanni e Paolo, ove ancor oggi riposa sotto il monumento in bronzo di Sebastiano dal Zotto, e a lui dedicato: tra l'ingresso della Cappella della battaglia di Lepanto e l’altare dedicato a San Pio V.
DON GIOVANNI D’AUSTRA
Ammiraglio e generale (Ratisbona 1545-Namur 1578). Figlio dell'imperatore Carlo V, fu riconosciuto dal fratello Filippo II in ossequio alla volontà paterna. Educato in Spagna, ebbe da Filippo II vari incarichi importanti.
Capitano generale della flotta del Mediterraneo, nel 1568 combatté contro i barbareschi. Scoppiata la rivolta dei Moriscos a Las Alpurias ebbe il comando delle operazioni di repressione: il buon esito delle operazioni in Andalusia gli procurò il comando della flotta degli alleati cristiani contro i Turchi, a Lepanto (7 ottobre 1571) conquistando poi Tunisi (1573) e Biserta. Visse a Napoli e a Genova, ma caduto in sospetto presso Filippo II, che ne temeva l'eccessiva popolarità, fu inviato nelle Fiandre in rivolta (1576). Qui combatté sotto la direzione di Alessandro Farnese e morì di tifo a 33 anni, mentre il suo segretario Escobedo, inviato a Madrid a chiedere soccorsi urgenti, veniva misteriosamente assassinato.
GIANNANDREA DORIA
Ammiraglio genovese (1539-1606). Figlio di Giannettino e di Ginetta Centurione, fu erede della fortuna di Andrea Doria. Comandante dell'ala destra  della flotta cristiana nella battaglia di Lepanto (1571), fu aspramente criticato per avere allargato lo schieramento durante lo scontro; egli sostenne che tale mossa fu eseguita per contrastarne una analoga compiuta dal comandante turco che aveva dinanzi, Ulug! Ali. Ma la violentissima reazione di Sebastiano Venier (che gli gridò in faccia ”Vile”) contro il suo operato lo contraddice. Nel 1575 il Doria, che apparteneva  alla vecchia nobiltà, in seguito ai tumulti dei nuovi nobili e del proletariato, pur riuscendo a salvare i privilegi di cui godeva, dovette accordare una revisione della Costituzione.
AGOSTINO BARBARIGO
Nasce a Venezia nel 1514. Inizia il suo “corsus honorum” a 12 anni a bordo delle navi in qualità di “Nobile de nave”, come erano soliti fare tutti i rampolli delle famiglie Patrizie Veneziane. Infatti, dopo il periodo di imbarco, “per farsi le ossa”, i nobili rampolli sceglievano la carriera che più preferivano: chi alla mercatura, chi alle arti nobili, avvocatura, ecc. Agostino era diretto discendente dei due fratelli Dogi Marcantonio ed Agostino, e scelse la via della mercatura, ma, come tutti, ed i nobili in particolare, era soggetto alle Leggi della Serenissima le cui cariche - più o meno prestigiose - erano tutte elettive. Pertanto, oltre all’obbligo di partecipare al Maggior Conisglio, fu “avogadore”, “sopracomito”, Senatore, Ambasciatore in Spagna nel 1560, ecc. Fu eletto Provveditor generale da Mar nel 1570 e destinato alla flotta dell’Adriatico inferiore.
SELIM II SULTANO DEI TURCHI
Sultano ottomano (Magnesia ca. 1524-Istanbul 1574). Figlio di Solimano il Magnifico e di Rosselana, succedette al padre nel 1566 soprattutto grazie agli intrighi della madre. Privo di capacità politiche, riuscì tuttavia a circondarsi di uomini di valore (come il gran visir Sokollu Mehemed) i quali condussero una politica di vasto respiro. Concluse la pace con l'impero (1568), ma non riuscì a evitare la grave sconfitta di Lepanto (1571). 
Strappò tuttavia ai Veneziani Cipro (1571 e 1573) e agli Spagnoli Tunisi (1574).
ALI’ PASCIA’ COMANDANTE DELLA FLOTTA TURCA
Uomo politico ottomano (m. 1579), bosniaco di nascita, educato nella religione islamica, ebbe una brillante carriera militare, divenendo ammiraglio, poi governatore della Rumelia. Dal 1565 fu gran visir di Solimano I e, alla sua morte (1566), di Selim II. Seppe conservare la pace attraverso un oculato sistema d'alleanze.
Fu spinto contro voglia alla conquista di Cipro (1571) e alla guerra con le potenze cristiane che culminò nella battaglia di Lepanto dove trovò la morte (ottobre 1571).
ULUG ALI’ PASCIA UCCIALLI
Corsaro ottomano (? 1507-Istanbul 1587). Luca Galeni, nato in Calabria e catturato, ancora fanciullo, dai Turchi, imparò l'arte del combattimento navale dai pirati algerini, venne chiamato Ulug Alì e divenne Pascià. A Lepanto (1571) si distinse come comandante dell'ala sinistra degli Ottomani: le sue navi furono le sole a uscire dalla battaglia con pochi danni, grazie anche al tragico (?) errore commesso dal Doria. Riconquistò Tunisi (1574) e s'impadronì della Goletta.
MEHEMET SCIROCCO
Ammiraglio turco detto, dai cronisti italiani, Maometto Scirocco Lepanto 1571), uno dei tre comandanti della flotta ottomana di Mehemet Alì a Lepanto.
Il giorno della battaglia (7 ottobre 1571) teneva l'ala destra dello schieramento con 53 galee, si trovò a combattere contro le 55 galee, quasi tutte veneziane, di Agostino Barbarigo che si batterono con impeto travolgente. La sua flotta fu sbaragliata ed egli stesso ferito e fatto prigioniero.
DRAGUT ALLEATO DEI FRANCESI PER LA RICONQUISTA DELLA CORSICA E AMBASCIATORE PER TRATTARE LA PACE SEPARATA CON VENEZIA
(corruzione del turco Dorghut), corsaro turco (Mugla 1485-Malta 1565).
Amurat Dragut, originario dell'Asia Minore, sin da giovane si segnalò nell'assaltare navi veneziane. Segretamente alleato con Enrico II di Francia, continuò a combattere con successo contro la Spagna e gli Stati italiani dalla sua base tunisina di al-Mahdiyyah (ora Mahdia). Partecipò alla conquista di Tripoli, effettuata nel 1551 dalla flotta turca, e nel 1556, alla morte di Murad Agha, ottenne il governo di quella città, estendendo poi la sua autorità anche su Djerba. Difese con successo Tripoli dall'attacco cristiano nel 1560, a perì mentre prendeva parte all'assedio di Malta. Cercò di trattare la pace separata fra Venezia ed il Sultano, grazie anche al contributo Francese, allo scopo di dividere le forze Cristiane.
LE GALEE E L’ARSENALE
Non possiamo dimenticare le vere protagoniste di questa tremenda e feroce battaglia: LE GALEE.
Queste erano navi lunghe e leggere, che, con tutte le sue diverse forme e misure adottate dai vari contendenti, furono le vere antagoniste; quindi anche loro meritano un cenno particolare fra i principali protagonisti.
La GALEA è una nave classica da guerra del Medioevo e dell'età moderna fino al sec. XVII: lunga e stretta, munita di sperone,era propulsa a remi, con uno o due alberi e vele latine. Un'anticipazione della galea è la lunga nave dei Micenei, che ebbe vasto e trionfale impiego dal 1300 al 1100 a. C.
Lunga da 12 a 35 m, impiegava massimamente 25 rematori per banda e utilizzava un albero e una vela. I Greci nel sec. VIII a. C. munirono la galea di sperone, rivoluzionando la tecnica del combattimento navale. Tale innovazione portò all'ampliamento della nave per poter ospitare il più gran numero possibile di arcieri e opliti.
La costante carenza di buoni rematori sfociò nello stadio evolutivo della galea che portò gli Ateniesi ad aggiungere un piccolo albero a vela smontabile, in genere utilizzato in caso di ritirata veloce.
I Cartaginesi nella I^ guerra punica utilizzarono g. con cinque ordini di remi contro i due e tre ordini dei greci e da loro i Romani copiarono tali modelli. Il Medioevo fu il periodo in cui la galea trovò la sua massima esaltazione in versioni diverse. Lo stesso dromone era una grossa galea con due ordini di voga e 50 rematori per banda.
Diffusa in tutto il mondo conosciuto, la galea fu largamente adottata da Arabi e Bizantini e divenne il nerbo della flotta delle città marinare italiane.
Intorno al Mille la diffusione della vela latina, che consentiva di stringere il vento, diede nuovo impulso alla costruzione della galea, in grado di attuare una  navigazione più veloce e libera della rotta obbligata.
I remi (azionati da forzati, o schiavi o liberi) vennero disposti a gruppi e non in ordini sovrapposti,  mentre i banchi di voga erano disposti a spina di pesce.
Nel quattrocento la galea passò dall'unico albero fisso a vela latina all'aggiunta del trinchetto, cui a volte si aggiunse una mezzana e un trevo di fortuna per  accelerare la corsa in caso di tempesta. Poco dopo venne adottato un timone centrale articolato e per la prima volta la nave fu armata con un cannone.
I Veneziani intorno al Cinquecento sperimentarono galea su cui più uomini lavoravano a “scaloccio” su uno stesso remo e tale sistema rimase in vigore fino alla fine del Settecento, su navi che raggiunsero la lunghezza di 50 m, con 116 o 180 remi o più su alcuni tipi come la galeazza, la galea lunga e la bastarda.
L'equipaggio poteva arrivare fino a 500 uomini, tra marinai, soldati e rematori.
Idearono, inoltre, un uovo tipo di galea, detta galeazza, ma molto più larga e lunga, con due castelli a puppa e prua, corazzata nei fianchi con delle grosse lastre di rame ed era armata con trenta cannoni di grosso calibro per lato, oltre ad altre quaranta colubrine mezzane, e diversi falconetti tra i castelli a puppa e prua.
Per quei tempi il volume di fuoco era davvero impressionante. Potevano navigare sia a vela che a remi e con tutti e due i mezzi, erano però molto lente e date le loro dimensioni, dovevano essere aiutate nel traino anche da altre galee.
Lo scafo era generalmente costruito in legno durissimo, costituito da un telaio orizzontale, due correnti longitudinali, due giochi trasversali. Una specie di castello a prora accoglieva le armi e un cassero forniva alloggio agli ufficiali.
Durante la navigazione, essendo i banchi dei vogatori allo scoperto, veniva teso un lungo telo dal cassero di poppa fino a prua. I Veneziani chiamano detto telo “Tiemo”. 
Inglesi e Francesi adottarono navi assai simili alle galee, mentre Russi, Svedesi e Danesi usarono ampiamente tale tipo di nave per la navigazione nelle acque basse e specie i primi le utilizzarono a lungo, tanto da impiegarle ancora nel conflitto russo-svedese del 1808.
Un cenno particolare merita l’Arsenale dei Veneziani.
L’Arsenale era una enorme fabbrica dove lavoravano oltre 40mila maestranze: segadori, capi mastri, calafatti, marangoni, remeri, fonditori, cordaioli, ecc.ecc.
L’abilità di quelle maestranze l’avevano reso come una enorme catena di montaggio - proprio nel senso moderno della parola! - al punto che, a pieno ritmo, riuscivano anche a varare una galea al giorno assolutamente completa ed in grado di intraprendere la navigazione.
Lì vi erano pronti, per ogni evenienza, centinaia di scafi, file interminabili di cannoni, montagne di legname sia a terra che in acqua per la stagionatura, cataste di corde si dividevano nelle darsene, sui moli, nei depositi, vi erano centinaia di migliaia di palle di cannone dn ferro e di pietra.
Nella primavera del 1571, nell’Arsenale si stava riparando la flotta che l’anno precedente aveva partecipato alla Lega Santa capitanata da Marcantonio Colonna e poi sciolta a causa dei forti contrasti che sempre vi erano stati fra Veneziani e Spagnoli. Parte di quei navigli erano diventati delle vere bare galleggianti a causa delle epidemie di peste che erano scoppiate a causa della promisquità in cui vivevano, a stretto contatto, soldati e marinai: basta solo pensare che in ogni galea vi erano oltre 200 uomini aai remi, 40 di equipaggio e circa 130 soldati!
Quando, il 25 maggio, fu firmato e ratificato l’accordo tra il Papa, la Spagna e Venezia per la costituzione della Lega Santa, l’Arsenale in soli due mesi varò oltre sessanta navi, le sei galeazze e tutte quelle in riparazione.
La spesa per ogni nave era stata sostenuta, oltre che dallo Stato, anche da moltissime città della terraferma Veneziana, orgogliose di partecipare ad un sì grande avvenimento. Inoltre a quelle navi equipaggiate con uomini delle varie contrade della Serenissima, era riconosciuto l’onore di avere una propria bandiera con lo stemma della città di provenienza e con il Leone di S. Marco.
I LUOGHI
Lepanto è un centro della Grecia, nel nomós di Etolia e Acarnania, porto peschereccio sullo stretto omonimo che collega i golfi di Patrasso e Corinto.
In greco, Naúpaktos.
In realtà la battaglia si svolse a circa duecento miglia da Lepanto, più esattamente di fronte a Capo Papas, nel triangolo di mare situato tra il golfo di Patrasso e le isole di Cefalonia e Zante. Oggi è nominata NAUPATTO.
GLI ANTEFATTI. LA SITUAZIONE IN ADRIATICO NEL 1570
Si è già detto che il 7 marzo ebbero inizio i preliminari nella sala capitolare del Convento di S. Maria sopra Minerva a Roma. In quel frangente si arrischiò un primo fallimento, quando il rappresentante del re di Spagna, il Cardinale Granvela, sentenziò che l’impresa non poteva essere iniziata prima del 1572.
Ovvio il risentimento degli Ambasciatori Veneziani, Michele Soriano e il Procuratore Soranzo, che gridarono in faccia al Granvela tutto il loro livore e risentimento, pur se in presenza del Papa e del Colonna. Pio V tanto supplicò i presenti che ottenne una sospensione delle trattative.
A quel punto inviò suoi messaggeri al re di Spagna ed al doge dei Veneziani per convincerli a rimanere nella Lega, anche perché era giunta notizia che vi erano in corso trattative segrete per una pace separata col Turco.
Bisogna tener presente che alla Lega non partecipavano ne' l’Impero Germanico e ne' il re di Francia, e che quest’ultimo - da sempre in ottimi rapporti con la Sublime Porta Ottomana - stava manovrando - tramite l’Ambasciatore turco Dragout - affinchè Venezia trattasse la pace.
In quel momento Cipro, che era uno dei più prestigiosi possedimenti Veneziani, era sotto assedio della flotta turca la quale aveva già conquistato mezza isola. Inoltre Venezia era già spossata per tutte le guerre che aveva dovuto sostenere fin dall’inizio del secolo in corso, e per la aumentata potenza turca in tutti i mari.
Dopo il 1550 i turchi avevano già raggiunto le coste della Dalmazia, erano giunti alle porte di Vienna, dopo aver conquistato la Grecia e parte del Peloponneso.
Era chiaro, a questo punto, che per Venezia era indispensabile o una pace separata con i turchi oppure una grande battaglia navale che li avesse fermati.
Venne quindi fissata la data dell’otto maggio per il prossimo incontro.
Il Nunzio Apostolico in Spagna, monsignor Castagna, ottenne l’assicurazione dallo stesso re Filippo che la Lega sarebbe stata fatta, a condizione che il Comandante in capo fosse suo fratellastro, don Giovanni d’Austria: don Juan. Il Granvela, per toglierlo d’intorno, venne nominato vice re di Napoli, in sostituzione del defunto don Pedro de Toledo. Rimaneva da convincere i Veneziani.
Il Papa incaricò lo stesso Marcantonio Colonna all’ambasciata presso il Senato della Repubblica di Venezia. Dopo lunghe trattative riuscì a convincere anche il forte partito della “pace”, e a far accettare che il comandante fosse don Juan, e il vice lo stesso Colonna per il Papa. Finalmente il 25 maggio la trattativa si concluse con soddisfazione per tutti. La cerimonia della firma si tenne nella sala di Costantino, dentro i palazzi Vaticani, dove il Papa aveva riunito in Concistoro segreto tutti i Cardinali. Il Papa Domenicano, Pio V, aveva già vinto la sua battaglia.
La Lega era conclusa, e venne solennemente pubblicata in Venezia il 2 luglio. Questo tempo trascorso tra la ratifica e la pubblicazione era dovuta al reperimento del denaro necessario e per la raccolta delle cernide.
Il prossimo appuntamento era a Napoli per la raccolta delle prime navi del Papa, del Savoia, di Toscana, dei Duchi, ecc. Il successivo a Messina, dove si sarebbe aggiunta la flotta Veneziana dall’Adriatico e dall’Egeo, quella Spagnola con don Juan e le 12 galee Genovesi di Giannandrea Doria.
VERSO LA GLORIA
Su la Battaglia di Lepanto si sono scritti in merito libri e libri, sicchè sarebbe agevole fare dell’erudizione, al punto di sentir dire da taluni che è anacronistico parlare ancora di essa ai nostri giorni in cui tutto si globalizza e tutto si riduce ad un presunto solidarismo di sola facciata, e di accoglimento di personaggi che, al pari degli loro stessi antichi Avi, vogliono conquistare l’Europa all’Islam in maniera molto più subdola e strisciante.
Ebbe a dire William Faulkner “Il passato non è mai morto, anzi: non è neppure passato”.
Tuttavia in questo studio si vogliono analizzare gli antefatti ed i personaggi che di essa ne furono i protagonisti, oltre che lo svolgimento della stessa battaglia che fu considerata universalmente “la più grande battaglia navale di tutti i tempi.
Essa servì solo, a causa delle gravi divisioni fra le flotte della Cristianità, a fermare l'avanzata dei Turchi e dell’Islam, ma non a sconfiggerlo del tutto…
Quando Sebastiano Venier fece la sua relazione al Senato della Repubblica Veneta elencò il bottino che le varie flotte si sparirono; quando i Senatori constatarono  che alla Repubblica era toccato ben poco, al confronto di quanto aveva investito, fu chiesto al Capitano: “E a Venexia cosa xe restà?” egli lanciò uno dei suoi sguardi terribili e ben conosciuti e rispose con voce tonante: “A Venexia xe restà tuto l’onor che altri no ga avudo”!
Inutile aggiungere le acclamazioni dei Nostri Antichi Padri…
SI COMINCIA!
Nell’agosto del 1571 circa trecento navi della Santa Lega - quasi una nuova Crociata - promossa  da papa Po V, si accalcavano nel porto di Messina. Vi erano tra squadrea: quella Veneziana, al comando del “Capitan General da mar” Sebastiano Venier; quella del Papa, agli ordini di Marcantonio Colonna, e la flotta di Filippo II, composta da navi spagnole e napoletane.
Con la navi del Colonna stavano quelle di Savoia e Malta. Le galee, 210, erano per metà Veneziane più le sei nuove “Galeazze” (più che un nuovo tipo di nave, erano delle vere e proprie fortezze galleggianti, armate con centinaia di cannoni di grosso e medio calibro), vi erano inoltre altre 60 fregate capitanate dal Veneziano Francesco Duodo. Comandante supremo era il ventiseienne don Juan de Austria, figlio naturale di Carlo V, e perciò fratellastro di Filippo II.
La galee erano svelte e basse navi che si muovevano ordinariamente a remi, ma potevano avere il sussidio di una o due vele al terzo.
Le Galeazze, preludenti ai futuri vascelli o galeoni, erano - come già detto - pesanti navi a tre alberi con fianchi tondeggianti ed i castelli di poppa e prua rialzati.
Erano una nuova invenzione dei Proti dell’Arsenale di Venezia che le avevano costruite proprio per quell’occasione. Non erano veloci e né maneggevoli ed era quasi sempre necessario trainarle: però furono i veri prototipi delle nuove navi e dei nuovi vascelli che avrebbero in seguito solcato mari ed oceani senza remi.
Allo scopo di fondere la triplice flotta in una sola armata e di evitare gelosie tra Nazioni, don Juan ripartì le navi in cinque squadre, ciascuna di bastimenti scelti nelle tre flotte, in modo che nessuna potesse pretendere di combattere soltanto per il Papa, per la Spagna o per Venezia.
Don Juan alzò la sua bandiera, lo stendardo della Lega, su la Reale, magnifica nave con poppa elevata riccamente ornata da sculture il legno. Aveva 400 rematori e 300 combattenti.
Ai lati della Reale stavano la Capitana del Papa, con la bandiera dei Colonna, e la capitana di Venezia, con la fiammeggiante bandiera di San Marco. Sempre ai lati vi erano anche le galee del duca di Parma e quella del duca d’Urbino. Il bastimento dei Cavalieri di Malta era comandato dal Gran Priore Pietro Giustiniani era all’estrema destra del centro. Tre navi di Emanuele Filiberto di Savoia erano al comando di Andrea Provana di Leyni.
Tutte le galee del centro portavano fiamme azzurre come segno distintivo. L’avanguardia e l’ala sinistra spiegavano bandiere triangolari verdi. Il corno destro del Doria si distingueva con fiamme gialle. Ogni Ammiraglia portava un grande fanale poppiero (Fanò) e una lunga fiamma rossa in testa all’albero poppiero.
Occorrerebbe scrivere un’intero libro per fare un’elenco completo dei casati storici d’Italia e di Spagna e quelli dei comandanti delle navi e delle truppe.
I forzati al remo di don Juan avevano la speranza di meritare perdono completo e - per consentire loro di prendere parte al combattimento - si prometteva di liberarli dalle catene e di armarli nel giorno della battaglia.
LE DISCUSSIONI E DIATRIBE PRIMA DELLA PARTENZA
Si era giunti a venerdì 24 agosto.
Il forte carattere di Sebastiano Venier si dimostrò subito: quando apprese dei tentennamenti spagnoli per un immediato attacco alla flotta turca, subito imprecò contro “quei pavidi intriganti di Madrid, degni del loro lugubre re”.
Ci volle ancora tutta la diplomazia del Colonna per riaddolcire gli animi. Ma ebbe anche il suo bel daffare nel convincere il Venier ad accettare nelle sue galee dei contingenti di soldati spagnoli, in quanto i Veneziani - già prostrati dalle lunghe guerre - non ne avevano a sufficienza.
Il 2 di settembre giunsero in porto, a vele spiegate, le navi dei Provveditori Querini e da Canal, la sera stessa il Doria con 11 galee, il giorno successivo le squadre del Santacroce, da Napoli, e di don Giovanni Cardona dalla Sicilia. La flotta era al completo.
L’otto settembre, gli Ammiragli passarono in rassegna tutta la flotta: deve essere stato uno spettacolo stupendo: 278 navi da battaglia, 6 galeazze, innumerevoli navigli minori da trasporto e da ricognizione. Ma non era ancora finita.
Il giorno 10 don Juan convocò tutti i comandanti delle squadre per un’ultima riunione prima della partenza e per ascoltare le opinioni ed i consigli di tutti.
Primo di tutti prese la parola il Doria, il quale sostenne di NON avventurarsi contro la flotta Turca, in quanto sosteneva che l’esito era alquanto incerto. (Vi è da considerare che il Doria partecipava alla Lega con le sua navi, ma messe al soldo del re di Spagna!)
Dopo un attimo di sbigottimento il Venier, rosso d’ira e al colmo dello sbigottimento, ebbe solo il tempo di farfugliare qualche cosa come “vergognosa”, ma fu il Querini a dire chiaro e tondo a tutti gli astanti lo sdegno dei Veneziani, iniziando con l’accusare il Doria di non voler mettere in pericolo le sue navi che aveva appaltato agli spagnoli; E questa era una cosa risaputa dei Genovesi che noleggiavano le proprie navi per le guerre, e questo fin dai tempi di Andrea, che era stato un grande capitano ma più abile nelle ritirate che nelle battaglie. “Figurarsi il nipote, continuava ad urlare il Querini, quello non è nemmeno marinaio, ma soltanto un pirata.
E dobbiamo anche ascoltarlo!”. E fu sempre grazie all’abilità diplomatica del Colonna, se non si andò oltre nella gravissima discussione.
I PERCORSI PER GIUNGERE A LEPANTO
La flotta della Cristianità si concentra in Messina e in parte a Villa S. Giovanni in Calabria, da dove parte nelle prime ore del 16 settembre del1571; passa la notte a Reggio Calabria, indi riprende la navigazione doppia Capo Spartivento e viene obbligata dal maltempo a passare al riparo della Costa Calabrese, passa innanzi a Punta Stilo e sosta a Capo delle Colonne il 21. Di notte le galee capofila accendevano tra grandi fanali; le navi serrafila issavano invece una grande lanterna all’albero di maestra. La disposizione di trasferimento era così composta: venti miglia avanti all’armata procedeva  un corpo d’avanguardia di 8 galere al comando del Cardona.
Al cadere della notte la distanza si sarebbe ridotto ad otto, per riprendere  posizione all’alba.
Un miglio dietro la flotta doveva navigare una retroguardia di 30 galere, pronta a soccorrere i legni in difficoltà e stringere la cadenze. Al momento della battaglia questo corpo aveva funzioni di riserva.
Così narra la navigazione Alberto Guglielmotti, storico della marina pontificia, sulla scorta del Sereno e del Caraccioloo, testimoni oculari: “Era il celo tutto sereno, il vento di tramontana freschissimo, le stelle chiare e scintillanti, ed ecco nel mezzo dell’aria fiamma di fuoco sì lucente e sì grande, in forma di colonna, per lungo tempo fu da tutti con meraviglia veduta, onde gli spettatori, come da prodigiosa apparizione, ne tiravano gli auguri di gran vittoria. Stimavano che a guidare la colonna di fuoco dovesse essere l’armata cristiana sul mare, come guidò il popolo dì Israele nel deserto. E tanto più si addentravano nei prognostici di siffatto segno, quanto da molti altri era stato in poco tempo preceduto”.
Il 26, dopo aver attraversato il golfo di Taranto ed essere passati innanzi a Santa Maria di Leuca, e ciò allo scopo di evitare le trombe marine di un tremendo uragano, le squadre raggiungono le isole Jonie e sostano a Corfù.
Il 30 settembre don Juan conduce la flotta a Igoumenizza, in Epiro, ivi sosta per far acqua e legna.
Il 3 ottobre, una fusta entrata in rada dopo il calar del sole, comunica la caduta di Famagosta e la orrenda fine di Marcantonio Bragadin.
Tale notizia infiammò gli animi e indusse don Juan, esortato dal Venier dal Barbarigo e dal Colonna, a respingere i suggerimenti prudenti che molti consiglieri gli davano - il Doria fra i primi - seguendo la linea tortuosa della politica di Filippo II.
Quella notte i marinai Veneziani, colmi d’ira e con la lacrime agli occhi, passarono in rassegna tutte le attrezzature di bordo per essere pronti alla battaglia, senonchè nella galea Veneziana del candiotto Calergi i soldati spagnoli presero in giro i marinai veneziani chiamandoli “scaldapanche e bravi solo a scappare”, come disse il loro ufficiale Muzio Alticozzi da Cortona. Inutile narrare la battaglia che ne sorse.
Il Calergi mando un messo dal Venier per avvisarlo di quanto successo,. Il Veniero, che male tollerava gente spagnola a bordo delle sue navi, si precipitò sul posto e vista la violenta reazione del Muzio e dei suoi tre ufficiali, ne ordinò l’immediata impiccagione nei pennoni dela stessa nave!
Quando don Juan lo seppe, voleva a sua volta impiccare il Venier. Fu il solito Colonna a calmare gli animi, con la condizione che il Venier non ponesse mai più piede nella nave ammiraglia di don Juan. Il suo posto fu preso da Agostino Barbarigo.
Da navi mandate in esplorazione si seppe che la flotta turca si trovava al di là dei cosidetti Dardanelli di Lepanto, formidabilmente difesi dai due castelli delle due sponde: Rhion, sulla costa di Patrasso, e Antirhion su quella dell'Etolia, all'estremità occidentale del golfo di Corinto. Lepanto (oggi: Naupatto, come già detto) è cittadina fortificata, con mandracchio: ebbe la venture di dar nome al grande scontro, svoltoso in realtà ad un centinaio di chilometri più a ponente, presso le isole Corzolari, le antiche Echinadi, ad oriente delle isole di Cafalonia ed Itaca.
Se dovessimo dare al titanico urto il nome dell’isola più vicina allo specchio di mare in cui esso si svolse, sceglieremmo Oxia, che è l'isola più meridionale delle Curzolari, presso il capo Scropha. In seguito altri informatori gli riferiscono inesattamente che la flotta musulmana conta di sole 200 navi, che numerosi legni avevano equipaggi ridotti e che la peste era comparse tra le truppe.
Alì Pascià aveva concentrato da diversi giorni tutta la sua flotta nel golfo di Corinto, o Patrasso, che dir si voglia, in quanto aveva appreso della riunione di quella della cristianità, quindi aveva richiamato anche quella vittoriosa di Cipro.
Ciascun avversario si credava dunque superiore al nemico e desiderava di incontrarlo al più presto. Alì Pascià decise di uscire dallo stretto di Lepanto e di attendere il resto dell’armata alleata, mentre don Juan lasciava Igoumenizza e si inoltrava tra Itaca e Cefalonia.
Nella notte dal 6 al 7 ottobre la flotta cristiana gettava le ancore all’entrata del golfo di Patrasso: a venti miglia all’interno del golfo erano le navi di Alì.
LE FORZE IN CAMPO
L’avanguardia, al comando di Juan de Cardona, comprendeva sette galee e le sei galeazze. L’ala sinistra, o corno sinistro, agli ordini di Agostino Barbarigo, veterano di numerose campagne, era formato da 53 galee; il centro o  battaglia, ai diretti ordini di don Juan de Austria, era costituito da una sessantina di galee; il corno destro, con Gianandrea Doria, aveva 50 galee. La retroguardia, al comando di don Alvaro de Bazan, ne aveva 30. Le fregate Veneziane costituivano un raggruppamento separato agli ordini di don Cesare d’Avalos. In totale 278 bastimenti.
Complessivamente: 1750 pezzi d’artiglieria, 34mila soldati, 13mila marinai e 43mila uomini ai remi. I soldati più numerosi erano gli Italiani, segiuvano gli Spagnoli.
Molti archibugieri. Gentiluomini volontari servivano su tutte le navi. Le squadre dell’armata musulmana, come detto: riunite frattanto nel golfo di Patrasso, o Corinto, erano composte di 221 galee simili alle triremi. Esse avevano da ciascun lato una fila di lunghi remi, ma erano pure munite di uno, due o tra alberi, portanti ciascuno una vela triangolare al terzo. A prora si travava una batteria di due o più cannoni: talvolta avevano una batteria di minor calibro a poppa.
Vi erano inoltre 38 galeotte o mezze galee, che appartenevano per lo più ai Rais dell’Africa del nord, e camminavano bene alla vela, come le 18 sottili fuste. In totale 277 legni, 750 cannoni, 34mila soldati, 13mila marinai e 41mila uomini al remo.
Il supremo comandante Alì Pascià era uno dei vecchi Ammiragli dei giorni Gloriosi del Sultano Solimano, quindi divenne il Consigliere di Selim II.
Alì aveva diviso la sua flotta in quattro squadre:
Centro o battaglia: Alì Pascià, con 91 galee e 5 galeotte, ossia galee minori:
Corno destro: Mehemet Saulak, detto Scirocco, con 55 galee e una galeotta:
Corno sinistro: Luca Galei, o Ulug Alì “Occialli”, con 67 galee e 27 galeotte:
Riserva: Amurat Dragut, con 8 galee, 6 galeotte e 18 fuste, queste con compiti simili alle fregate cristiane.
LA DISPOSIZIONE DI BATTAGLIA
Dopo quanto narrato, la disposizione di battaglia era così predisposta: Alla sinistra di Barbarigo sotto riva di Capo Papas, che aveva di fronte Mehemet Scirocco.
Alla destra di Doria, verso la costa della Morea, aveva di fronte Ulug Alì Occialli.
Al centro: don Juan, Sebastiano Veneier, Marcantonio Colonna e gli altri dignitari cristiani: avevano di fronte Alì Pascià
Le stampe dell’epoca ci mostrano che la flotta della cristianità era disposta in linea retta, nel mentre quella Turco - Musulmana a semicerchio.
Le sei galeazze veneziane erano disposte a due a due di fronte alle tre disposizioni.
LA BATTAGLIA
All’alba del giorno 7 ottobre del 1571 l’armata cristiana era già in cammino, con le navi piuttosto disperse per il vento e il mare mosso, quando si intravvidero all’orizzonte le bianche vele delle navi mussulmane. Don Juan spiegò per la prima volta la bandiera che gli aveva dato il Pontefice e animatore Pio V: grande vessillo quadrato fregiato da un Crocefisso e dalle immagini di S. Pietro e Paolo.
Colonna spiegòm l’insegna del Papa e Sebastiano Venier fece portare la bandiera da guerra con il Leone di S. Marco della Serenissima sul cassero di poppa e difesa dai fedelissimi dodici Gonfalonieri di Perasto, un’altro vessillo, con il leone di S. Marco, lo impugnò lui stesso.
Mentre la flotta si inoltrava lentamente, don Juan inviò un pilota in esplorazione. Questi scalò una delle rocce dell’Isola di Oxia e di lassù contò 250 vele nemiche, ma raggiunta la Reale il pilota fece non a don Juan che un racconto reticente, perché temeva di deprimere il giovane comandante innanzi all’ormai imminente ed inevitabile battaglia. Il Vento favoriva le navi di Alì, ma ad un tratto cessò e il mare divenne calmo. I Turchi ammainarono le vele inutili con una manovra rapida e simultanea, che i cristiani ammirarono.
Su un brigantino don Juan percorse l’intera fronte delle navi cristiane. Ritto sulla prua, con una splendida armatura, reggeva un Crocefisso, incitando ufficiali e soldati a tutto sacrificare per la causa santa: poi ritornò sulla Reale, tra le navi di Marcantonio Colonna e Sebastiano Venier.
Intanto a molti forzati si toglievano le catene e si davan le armi per difendere le navi e la loro libertà. Tutto il grosso si trovava su una sola linea; l’ala sinistra e il centro avevano già le prue volte al nemico, mentre il corno sinistro di Giananrea Doria era ancora in navigazione in linea per raggiungere il posto e la formazione di combattimento.
Davanti al grosso, a larghi intervalli, stavano le potenti galeazze veneziane dell’avanguardia di Francesco Duodo, aiutate ad arrivare al loro posto a traino di sei veloci corsieri; a tergo dell’armata la riserva di don Alvaro de Bazan.
Grande fu la meraviglia dei musulmani nel vedere le sei grosse galeazze mettere la prua verso di loro e dar fondo all’ancora: navi simili non ne avevano mai viste.
L’entusiasmo guerriero e un subitaneo fervore difede tenevano concordi e accesi gli animi dei nuovi crociati, finalmente dimentichi dele loro diversità di razza, interessi e di passioni.
Scrive Giovan Pietro Contarini nella sua Historia, publicata a Venezia nel 1572, che veniva dato “il segno di trombe, pifferi, chiarelli, tamburi et ogni altra sorte di strumenti. Ad alta voce, per tutta l’armata era universal il grido, et si invocava l’onnipotente Iddio Pdre Figliolo et Spirito Santo, et fu salutato universalmente con alta voce il nome Suo e della beatissima Vergine Sua Madrea Maria, et subito andorno li sacerdoti et molti patroni delle galee con il Crocefisso in mano da prova a puppa con devoto et efficace parlare”. Su tutte le navi, da don Juan al mozzo di bordo, tutti, a capo scoperto, piegato il ginocchio, recitavano la loro preghiera.
E fu silenzio et isplendore insolito su tutto il mare”.
Era quasi mezzogiorno quando l’armata osmana in linea di fronte giungeva quasi a tiro di cannone dalle galeazze. Alì, avanzando con le sua navi a largo raggio, fece sparare un colpo dal grosso pezzo di prora. Don Juan, immobile con le sue squadre, fece a sua volta tirare un colpo verso la Reale turca. Mentre aspettava l’assalto, il giovane capo supremo fece suonare i pifferi, e a proravia, sulla rembata, con due cavalieri spagnoli, ballò la famosa gagliarda: la battaglia di Lepanto era cominciata.
L’armata turca si avvicinava in linea di fronte in tutta la sua imponenza, sulle spalle degli schiavi cristiani incatenati ai remi scendeva la frusta degli aguzzini.
Sui ponti turchi “levato un grandissimo grido, accompagnato da gnacare et altri simili strepiti militari, incitati i remiganti et fatta la maggior forza che puotèro, co gran furia, velocità et fretta si fecero innanzi”.
Si levò allora un vento di maestro propizio ai nostri. Era mezzodì.
Appena giunto a tiro lo schieramento nemico, Francesco Duodo, dalla sua potente galeazza, ordinò di scaricare tutte le bocche da fuoco di prua contro il nemico.
Con le smisurate palle, colpita una galea nemica, la mise in preda alle fiamme. Gli artiglieri veneziani avevano inventato un nuovo sistema di palle per i cannoni più grossi: erano poste due mezze sfere unite fra loro con dentro fissata una catena, quando venivano sparate le palle si aprivano e le catene si allungavano colpendo così le alberature delle navi avversarie.
La linea turca mostrò qualche disordine. Nel correre verso le galee cristiane qualche nave esitò; altre piegarono per non passare troppo vicino alle galeazze, che con uragani di moschetteria, sparati dagli alti castelli, impedivano qualsiasi tentativo d’abbordaggio.
Al passaggi al loro fianco, le galeazze spararono con i pezzi posti ai fianchi seminando ancor più terrore. La flotta ottomana sfociò dietro le galeazze in masse confuse, con largo intervallo tra divisione e divisione, come la corrente di un fiume è divisa dai piloni di un ponte. Il disordine dell’attacco turco diminuì il volume di fuoco che i suoi cannoni prodieri potevano dirigere sulla linea cristiana, perché la navi di testa mascheravano quelle che seguiuvano. Anche oltrepassate le micidiali galeazze, i turchi si sforzarono di ristabilire la loro linea di battaglia, ma il fuoco dei pezzi installati sui casseri poppieri dei poderosi legni veneziani ostacolò grandemente il tentativo.
Grazie a queste poderosissime nuove navi, la battaglia ebbe un’esito positivo per la flotta della cristianità ancor prima della battaglia.
L’armata cristiana teneva immobile il centro ed il corno sinistro. Dai ponti delle galee si osservava il nemico che, avendo oltrepassato la fumea nerastra prodotta dalle artiglierie delle galeazze - giungeva a minima distanza. Allora la linea di battaglia cristiana, dato empito con i remi alle galee, andò con grandisima furia contro gli infedeli, facendo fuoco con i pezzi dei castelli prodieri.
La squadra di Agostino Brbarigo, Provveditore generale, all’ala sinistra, fu la prima ad incontrarsi con l’ala destra turca comandata da Mohmed Scirocco, Pascià d’Egitto. Questi condusse la sua rande galea all’estremità dela linea, finco a fianco della nave ammiraglia veneziana. Mentre qualche galera turca più leggera riusciva ad insinuarsi tra le navi del Barbarigo e la terra per prendere a rovescio il corno cristiano, le galee più grosse l’attaccavano di fronte.
I gianizzeri, fanteria scelta del Sultano, invasero il ponte della nostra nave, strenuamente conrastati dagli archibugieri di Venezia e dai marinai tutti che contennero le ciurme osmane rinnovantisi come onde, e il Barbarigo, scrive il Paruta, “sempre tra i primi aggirandosi e dove era più folta la tempesta dei nemici correndo, mostrava che se per l’arte non era niun capitano secondo, per la prontezza della mano e per l’ardire pareggiava i più animosi soldati”.
Parimenti cruento era il combattimento che avveniva poco lungi tra la galea di Marin Contarini e sete galee turche che l’accerchiavano. Il Contarini, nipote del Barbarigo, cadde colpito d’archibugio, e poi muoiono il comito e il pilota. Paolo Orsini si prodiga facendo il soldato e il marinaio, ma è a sua volta colpito.
La galea di Vincenzo Querini sopravviene a voga arrancata, cacciandosi a forza tra le navi turche, con gran fragore d’armi e di remi infranti. La pressione contro la galea del Contarini è così alleggerita, mapure il Querini cade. I suoi combattono tuttavia con inaudito valore, e con l’altra galea Paolo Orsini, benchè ferito, si getta al contrattacco.
In quella gli schiavi cristiani della galee turche riescono a liberarsi dalle catene e fanno strage di turchi. Al grido di libertà! Sono sulla galea dell’Orsini; ivi mettendosi ai rei o alle rembate. Le sorti dello scontro si invertono: cinque galee nemiche sono preda dei nostri.
Nel contempo pure l’ammiraglia del Barbarigo, la “Patrona di Venezia”, sta per soccombere, ma è soccorsa dalla galea di Zuane Contarini del Zaffo, e poi dalla “Santa Caterina” di Marco Cicogna e dalla “Madonna” di Pier Francesco Malipiero, che impegnano una lotta tremenda. Il Malipiero è ucciso e il Cicogna gravemente ferito.
Approffitando della mischia una galea turca riesce a portarsi a poppavia della “Patrona”. Mentre il Barbarigo “stava comandando alcuna cosa intorno al combattere, veggendo di non poter essere bene udito perché teneva il viso coperto con lo scudo, per poter meglio fare, fu costretto a scoprirsi”. Fu colpito da una freccia all’occhio. Gravissima è la ferita, ma egli continua finchè può. Ne muore dopo due giorni.
Nonostante la confusione prodotta a bordo della “Patrona” dalla ferita del Provveditore generale, Scirocco non riesce ad avere ragione dei nostri, poiché gli va contro la galea del Provveditore Antonio da Canal. Questi, per non essere inceppato dall’armatura, ha addosso una lunga veste bianca imbottita, con un copricapo analogo, e un  paio di scarpe di corda. La galea di Scirocco affonda; Scirocco si getta a nuoto; è tratto sulla galea di Marino Contarini; riconosciuto; decapitato e la testa infilzata in un’asta. I turchi ne rimangono terrorizzati
La mischia procede feroce. Federico Nani è al comando della galea del Barbarigo; una frecciata lo coglie sul fianco; si fa sommariamente medicare; torna a prora a combattere. Ed eccon farsi largo la con la sua Capitana il provveditor Marco Querini, accorso dall’estrema destra del corno sinistro, dopo aver posto fuori combattimento diverse galee turche. La galea Elbigina cattura la Capitana di Istambul. La grande galeazza di Antonio Bragadin fulmina le galee turche dell’ala estrema e le costringe a gettarsi alla costa sperando protezione in un paese amico: ma invano, poiché vengono tutte affondate.
Al centro. La principale squadra turca aveva molto sofferto per il fuoco delle galeazze. Molti colpi eran caduti sulla possente galea che portava l’insegna del Pascià Alì: un bianco vessillo inviato dalla Mecca e sul quale erano ricamati versetti del Corano (questo vessillo si trova ancor oggi esposto nel soffitto della Sala d’armi del Consiglio dei X, in Palazzo Ducale a Venezia). Alì si diresse nondimeno con la sua nave addosso alla Reale di don Juan, lasciando al Serraschiere Pertev Pascià (Portaù) e al Pascià di Mitilene la cura di attaccare le ammiraglie di Marcantonio Colonna e Sebastiano Venier.
Alì tiene silenziosi i suoi pezzi prodieri sino a che è a un tiro di schioppo dalla Reale; allora fa fuoco uccidendo molti uomini; i cannoni di don Juan rispondono tuonando. Le due navi si incontrano prua contro prua; dopo l’urto la nave di Alì scivola lungo il fianco della Reale. I due bastimenti si lanciano a vicenda gli arpioni d’arrembaggio e il corpo a corpo comincia.
I fianchi delle galee cristiane avevano il bordo più basso di quelle dei turchi, pertanto i gionai giannizzeri di Alì ebbero facile gioco a salire sulla Reale. Gli archibugieri del Terzo di Sardegna comandati da don Lopez di Figueroa, con molta abiltà si misero a contrastare le orde e per ben tre volte le respinsero in un feroce corpo a corpo.
Nella foga della lotta, riuscirono a ricacciare i turchi nella loro nave e d’un balzo arrivarono fino al trinchetto. Ma proprio lì i giannizzeri fecero quadrato attorno al loro Pascià, e la lotta si ristagnò per un breve periodo. La stanchezza si cominciava a far sentire.
Il Venier, vista la difficoltà in cui era don Juan, ordinò al suo nocchiere di intervanire.
Nel contempo Pertev (o Pertaù) abborda la nave del Venier e il Pascià di Mitilene da addosso alla galea del Colonna; tutte le galee del centro si lanciano le une addosso alle altre. I remi si spezzano, i colpi degli archibugi, gli scopi delle granate, il clangore guerriero delle trombe cristiane, il rullo dei tamburi turchi, il cozzo delle spade, le grida dei combattenti si confondono in un rumore assordante.
Attraverso il fumo i turchi riescono a metter piede nuovamente sulla prua della Reale. Il momento è critico, ma il Venier, che aveva ormai soverchiato il suo diretto antagonista, il Serraschiere, accorre in aiuto di don Juan. Con tutta la forza dei remi lancia la prua della sua galea addosso alla poppa della nave di Alì, cui spazza i ponti con scariche di moschetterie, e lancia le sue compagnie all’arrembaggio. Lui le segue.
Questo intervento salva la Reale: Alì deve ormai pensare solo a difendersi.
Dall’altro lato della Reale il vecchio Sebastiano Venier, a capo scoperto, si batte splendidamente: tiene in mano il vessillo di S. Marco, e due marinai, alternativamente, gli caricano la balestra che egli scarica contro i turchi. Le palle e le frecce gli sibilano d’intorno, mentre i suoi uomini si battono corpo a corpo con i nemici.
Reso malconcio il suo antagonista, il Venier ne affida la fine ad altre galee sopraggiunte e si getta a speronare ed a colare a picco altre navi. Una freccia lo ferisce ad una gamba, ed egli gridò un urlo più di rabbia che di dolore: incurante della ferita, si strappa la freccia e rimane sul ponte. Venezia poteva essere fiera del suo Capitano Generale che la battaglia aveva strenuamente voluta, e in maggior parte vinta ma non solo: salvò anche la vita al Capitano Generale della flotta: don Giovanni D’Austria!
(Al termine della battaglia, don Juan lo abbraccerà e o chiamerà: “Padre, salvatore e sorgente principale della vittoria”. Tutte le discussioni di prima della battaglia furono completamente dimenticate!). In suo soccorso arrivano le galee di Catarino Malipiero e di Giovanni Loredan e tutte le navi turche più vicine si lanciano disperatamente e con rabbia contro di loro: nella furiosa lotta, morirono ambedue da veri eroi.
Verso la capitana dei turchi convergono ormai con straordinario ardimento le galee ammiraglie di don Juan, del Colonna e dei Duchi di Parma, d’Urbino, del Savoia.
L’aiuto così opportuno che il Venier porta alla Reale è il punto culminante del combattimento. La fanteria si impadronisce del ponte della nave nemica e nessuno dei quattrocento soldati turchi sopravvive: Alì è uno degli ultimi a soccombere: la sua testa è posta in cima ad una picca, e la si porta a don Juan con lo stendardo della mecca. Il giovane ammiraglio guarda con disgusto il macabro trofeo sanguinoso e ordina di gettarlo in mare, invece i veneziani lo fanno portare in giro per la nave demoralizzando, in questo modo, i turchi superstiti.
Don Juan fa issare la bandiera della Lega Santa a ciò che rimane dell’albero maestro della galea vinta, mentre le trombe squillano gioiosamente e i suoi uomini lanciano il grido di trionfo. Il Venier chiede immediatamente per la Repubblica di Venezia lo stendardo della Mecca.
Mentre così la lotta si decideva a favore dei cristiani, su l’ala sinistra ed al centro, diverso sviluppo aveva il corno destro. 
Qui la navi di Gianandrea Doria, a dimostrazione ulteriore della sua scarsa voglia di combattere, non avevano fatto a tempo a prendere la formazione di combattimento, quando videro i bastimenti di Ulug Alì (Occhialli) deviare di rotta e dirigersi verso l’alto mare.
Va detto, ad onor di cronaca, che sia il Doria che Occialli, o Uccialli, comandavano galere proprie al soldo dei principi della cristianità, l’uno, e del Bey di Tunisi, l’altro.
Se combattevano mettevano a repentaglio i loro legni, se fuggivano era posto in gioco il loro onore. Ora, stranamente, si affrontavano nell’angolo più lontano della battaglia, dove era più facile la manovra dell’attesa o del disimpegno.
Nelle prime ore Uccialli si guardò bene dall’inseguire il Doria e le sue galere isolate dal grosso dell’armata. Forse capì che il Doria aveva poca volontà di far guerra, e come lui si tenne lontano dallo scontro standosene poltro ad osservare come si mettevano le cose.
Ma quando vide che la battaglia era perduta sia al centro che al lato della costa pensò di non dover più indugiare in quella posizione, e che fosse giunta l’ora di scamparsi. Sulla strada della fuga l’occasione gli metteva davanti una ventina di legni abbandonati dal Doria, incerti tra le spalle ormai lontane del loro comandante e il fronte dell’altra squadra in piena tempesta di assalti. Uccialli era un predatore, un pirata. Giudicò facile pigliarsi a man salva quei legni sbandati, forte d’una schiera di almeno il dopio di galere intatte. Diede ordine di mettere i remi in acqua e di arrancare a tutta voga in direzione dello squarcio.
Le venti navi che gli stavano di fronte non fuggirono. E la battaglia, che stava per spegnersi sul restante dello schieramento, qui si riaccese d’improvviso.
La nave di Uccialli diede addosso alla “San Giovanni” dei Cavalieri di Malta, che in breve fu sopraffatta; il Gran Priore Giustiniani fu gravemente ferito, quasi tutti i suoi uomini uccisi e Ulug si impadronì dello stendardo dei Cavalieri come trofeo. Anche la “Fiorenza” e la “Margherita” ebbero la peggio, ma giunse a buon punto don Alvaro de Bazan con le navi di riserva.
Prospero Colonna sulla “San Teodoro” e Onorato Caetani sulla “Griffona” fecero trancare con la scure le prede che si trainavano e si gettarono addosso ai turchi.
Fu l’ultima azione della battaglia. Quando arrivarono sul punto dello scontro Uccialli aveva già fatto strage. Sulla “Fiorenza” e su una galea maltese tutti gli uomini furono passati a fil di spada, i ponti macchiati di sangue cristiano come un ammazzatoio di bestiame.
Uccialli, desideroso più di salvarsi che di combattere, fece suonare il segno della ritirata. Abbandonò sul luogo dodici galere che già era riuscito a predare tranne il legno di Pietro Bua, l’Aquila, che per essere di scafo leggero era più facile e comodo da trascinare. Lasciò in mano dei cristiani venticinque delle sue navi, guastate dalle artiglierie e dagli sperono con cui erano state abbordate.
Con le quaranta galere e galeotte che gli erano rimaste prese la via del largo verso Costantinopoli, menando rovina sulla sua rotta a don Giovanni Cardona e a quanti Legni cristiani ardivano a tagliare la strada della sua fuga disperata. Solo a questo punto si udirono le galee del Doria cannonneggiare da lontano verso il nemico e di lì a poco lo si vide sul campo di battaglia, a pugna terminata e appena in tempo per appropriarsi della sua parte di bottino.
Alle quattro del pomeriggio la battaglia era finita, la grande armata turca distrutta; soltanto le galee di Ulug Alì Uccialli e poche altre erano riuscite a fuggire:
la flotta cristiana era padrona del mare.
Verso le cinque, il cielo si fece oscuro, già penetrato dalla notte. Poi il vento girò per maestro, le nubi si fecero nere e sulle acqua scomparve ogni chiarore. Il vento crebbe portando grande pioggia in mezzo a lampi e tuoni, ed il mare si ingrossò di molto: la pioggia scrosciava sulle navi, flagellava le onde, cadeva sui vivi e sui morti.
Lavava la battaglia.
Glia alleati ebbero 7.500 uomini uccisi o annegati, in gran parte soldati: Le città d’Italia e di Spagna ebbero ciascuna un lungo elenco di morti; Venezia pianse Agostino Barbarigo, trenta comandanti di nave e nobili capi di uomini, e centinaia e centinaia di soldati.
Ma ben più gravi le perdite dei turchi, che ebbero 25.000 morti. I Pascià Alì e Scirocco e la maggior parte dei loro capitani uccisi, molti prigionieri, molti dei migliori capitani fatti prigionieri.
Si erano affondate o incendiate 15 galere turche.
150 navi formarono il bottino dei vincitori, altre 50 erano andate a sbattere lungo la costa e furono poi scheggiate e arse. Oltre 10.000 uomini furono catturati.
12.000 schiavi cristiani trovati a bordo delle galere turche vennero liberati, e raccontarono a tutta la cristianità la vittoria e la gloria dei loro salvatori.
Narra il Catena che il Santo Pontefice Pio V “stando quel giorno 7 ottobre del 1571 nelle ore pomeridiane con monsignor Bartolomeo Pussotto tesoriere, col cardinale Cesis e più famigliari, improvvisamente appartatosi da loro, con gli occhi al celo, pieno di giubilo, mostrando nei tratti dello scarno sembiante l’espressione del supremo lume, rivolto al tesoriere disse: "Andate monsignore, non è tempo per altri affari. Ringraziatene Iddio che l’armata nostra affrontandosi con la nemica ha guadagnato la vittoria”.
A Venezia la rande notizia venne recata dalla galea veloce “Anzolo Gabriel” di Onfrè Giustinian, che entrò in porto “sbarando a salve con tuta l’artillaria”.
Il Popolo quasi in delirio si riversò in Piazza San Marco e con unanime slancio di devozione e riconoscenza, prostrato davanti al Santo, intonò cantici e inni di grazie.
Il giorno 7 ottobre, giorno di S. Giustina, fu dichiarato festivo e fu uno dei giorni in cui il Doge, in gran pompa e grande corteo, si recava a visitare la chiesa dedicata alla Santa (ora questa chiesa, distrutta dalla furia Napoleonica, è ridotta a scuola statale).
Vennero, inoltre, coniate delle monete - dette, appunto, “Giustine” - che il Doge gettava a piene mani ogni volta all’arrivo nella chiesa.
Nella vicina chiesa dei S.S. Giovanni e Paolo venne costruita, sul fondo del transetto di sinistra, una bellissima cappella dedicata “alla Vittoria di Lepanto” (ora è chiamata “del Rosario”) con preziosi marmi istoriati, dossali lignei, splendidi dipinti ed un tempietto per altare.
Al suo arrivo a Venezia a Sebastiano Venier vennero tributati gli onori del trionfo: egli entrò in porto con la sua nave ammiraglia con la bandiera turca vinta a Lepanto a strascico  dietro. La disfatta della flotta turca segnò la battuta d'arresto dell'espansione ottomana in Occidente
MIGUEL DE CERVANTES, l’autore del Don Chisciotte che in quella battaglia vi partecipò perdendo un braccio, così racconta un particolare: “… due galere s’investono per le prue nel mezzo dello spazioso mare: esse sono incastrate e avvinghiate, e al soldato non rimane altro spazio che quello che gli concedono due piedi di tavolato dello sperone; e con tutto ciò, pur vedendo che… alla prima disattenzione nel mettere i piedi andrebbe a visitare il profondo seno di Nettuno, con tutto ciò, con intrepido cuore, spinto dall’onore che lo pungola, si mette a far da bersaglio a tanta fucileria, e cerca di passare per un così angusto spazio alla nave nemica.
E ciò che fa più meraviglia è che non appena uno è caduto da dove non potrà più rialzarsi sino alla fine del mondo, ecco che un altro immediatamente ne occupa il posto; e se anche questo cade nel mare che l’aspetta come un nemico, prende posto un altro, e poi un altro, senza dar tempo al tempo che muoiano: che è il più gran valore che possa riscontrarsi fra tutti quanti gli episodi di guerra”.

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