VILLA DEI VESCOVI

Il fascino pittorico del sangue
Tra manzi e agnelli squartati l'arte porta i sogni al macello
Tendenze Da Carracci a Bacon una sfida radicale alla forma
Rimandi
Il macellaio con il coltello preso dalla cintola è un cavaliere che sfodera la spada
Ultima stazione
L'approdo è Kounellis: nelle sue installazioni appende pezzi di carne vera

Il primo fu quel genio tormentato di Annibale Carracci: in pieno clima manierista, quando tutti gli altri pittori si esercitavano nell'elaborazione di incomprensibili allegorie e in estenuate ripetizioni dei modelli raffaelleschi e michelangioleschi, lui tornava allo studio dal vero e a soggetti per capire i quali non c'era bisogno del manuale di iconografia. Nascevano così, nei primi anni Ottanta del Cinquecento, le due stupefacenti versioni della Bottega del macellaio. Mestiere fra i meno onorevoli, all'epoca e però mestiere dello zio, che i cugini Agostino e Ludovico si erano ben guardati dal portare mai sulla tela.
Annibale, invece, che era un tipo eccentrico e, a differenza degli altri artisti che aspiravano a elevare il proprio rango sociale, non si vergognava di affermare la qualità artigiana del suo lavoro e rifiutò sempre di integrarsi nei ceti superiori, trovò affascinante indulgere nella descrizione di un bue e di un agnello squartati. Anzi, il gesto del macellaio che prende il coltello dalla cintola, è addirittura un chiaro rimando a quello del cavaliere che sfodera la spada. Con i suoi due quadri, Annibale cambiava completamente il tono al soggetto della macelleria che, dai suoi primi esempi fiamminghi, era legato a un intento comico con allusioni grevi e volgari come è evidente anche nella Macelleria di Bartolomeo Passerotti dipinta nella stessa Bologna, poco prima di quella di Annibale. Era appunto tutta un'altra cosa, come la differenza che passa fra una commedia carnevalesca rispetto a una cronaca.
Dopo Annibale, il soggetto virò definitivamente verso un uso e un significato sempre più severi finché, circoscritto al solo particolare del bue squartato, diventò quasi un tema da meditazione, un memento mori più inquietante della consueta formula con teschio e clessidra. E proprio come per la rappresentazione del teschio, anche quella del bue squartato, venne vissuta dai pittori, innanzi tutto, come una prova di virtuosismo.
Il pezzo di bue è un saggio di bravura in cui l'artista si cimenta per il piacere stesso della sfida. In primis perché si tratta di un soggetto privo di fascino, poi quasi di un monocromo e infine perché il quadro non mostra alcun piatto di quel menu (figure, invenzioni, storie, ritratti) da cui convenzionalmente si può assaggiare la bravura del pittore. Si gioca senza trucchi, senza abbellimenti, senza rete. Inutile dire che, fra tutti i pittori del Seicento che si esercitano nelle nature morte, chi accetta la sfida più radicale si chiama Rembrandt.
Affascinato dall'enorme carcassa di un intero bue, ci si butta a capofitto: non gli interessa più dipingere una storia (una macelleria o un pezzo di carne in una composizione di selvaggina). Gli importa solo e solamente del bue con tutte le variazioni di rosso sangue da inseguire. Il suo Bue squartato del 1655 è pittura pura, fatta di ricerca degli impasti giusti, delle pennellate che si trasformano nei diversi spessori di grasso, tendini, muscoli. Toccherà ad altri, sembra dire nella concentrazione furiosa di quel corpo a corpo, chiosare quel lavoro con tutti i significati che vorranno dargli.
E così anche Rembrandt, come già Annibale Carracci, diventa a sua volta caposcuola. Più tardi Goya, con la sua natura morta da tavolo di pezzi di costato, non sarà altrettanto coraggioso, anche se ugualmente sublime nella mancanza di commento. E infatti, all'inizio del Novecento, il lituano Chaïm Soutine si rifà direttamente a Rembrandt, aggiungendo però il pathos espressionista. Da quel momento l'interpretazione drammatica diventa il senso del soggetto e in tale contesto entra da protagonista nel Tre studi per una crocifissione di Francis Bacon dove il corpo dell'uomo sventrato è rappresentato come un tutt'uno con un quarto di bue penzolante dal soffitto.
Infine, come sempre succede quando l'intera gamma delle possibilità formali e espressive viene scalata fino al suo esaurimento, si torna indietro. L'ha fatto Jannis Kounellis che nelle sue installazioni severe e laconiche ha appeso pezzi di carne vera ritirando così ogni mediazione fra l'oggetto e la sua rappresentazione e superando d'un solo balzo l'assertività scientifica di Rembrandt e la cronaca di Carracci: la carne è la carne.

 

 

 

Indietro || Home